31 luglio 1944: Su indicazioni di Hitler a Firenze tutti i ponti vengono minati, tranne il Ponte Vecchio che pero’ rimarrà isolato dalla distruzione delle strade di accesso.
13 Agosto 1944: I genieri aIleati costruiscono ponti Bailey sulle macerie dei ponti distrutti.
8 Settembre 1944: Sul giornale 'La Nazione', i fiorentini leggono della cacciata definitiva dei tedeschi da Monte Morello, da Montesenario, da Monte Giovi e dalla Calvana.
Piero Calamandrei riapre l'università; il tribunale riapre i battenti.
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Luglio 1945
Un anno dopo...
“Ho deciso, disse Lea, usciamo da questa casa che per fortuna è ancora in piedi. Sì, ho deciso: andiamo per un mese in campagna vicino a Vinci, almeno così ci riposeremo dopo tutti questi spaventi e tanta fame…”
Via di Mezzo era una traversa di Borgo Pinti poco prima deIl’arco di San Piero.
Qui sostava un autobus degli americani che, chissà come, qualche ‘pescecane’ deIla borsa nera era riuscito ad aggiudicarsi iniziando un servizio di trasporto pubblico.
Ma non era quello il mezzo con il quale sarebbero andati in campagna, lasciando il centro città dilaniato dai bombardamenti, dalle mine fatte brillare dai tedeschi in ritirata, dai maledetti cecchini che per mesi avevano fatto il tirassegno sulla popolazione inerme.
Ad aspettare Lea, Emma, il Lalli e pochi altri c’era, dietro quel pullman americano, un vecchio camioncino con un pianale sul quale erano state montate delle panche di legno, dopo che era stata tolta la fornace a carbonella, il gasometro, con la quale doveva avere viaggiato per almeno un tre anni.
Sulla panca dall'altro lato del pianale del furgone si erano seduti in quattro, marito e moglie con due ragazzini.
Magri assatanati, sguardo perduto nel nulla, neanche un sorriso o una parola. Il marito doveva essere un ex militare disertore, sotto un pastrano trucido (con quel caldo) si intravedeva una camicia giorgioverde militare d'ordinanza.
Lea cerco' di attaccare discorso dopo averli salutati, ma quelli sembravano statue di sale e non risposero.
Per fare quei pochi chilometri per uscire dalla disastrata Firenze ci vollero più di tre ore. Alla guida del catorcio c’era uno di mezza età che sfoggiava camicia e pantaloni rosso vermiglio, tanto per far capire che lui non era stato coinvolto con i fascisti e tantomeno con i nazisti.
Va a sapere se poi fosse vero o se piuttosto non si trattava del solito ruffiano pronto a cambiare casacca al primo stormire di fronda.
Finalmente dopo tanti scossoni e frenate per evitare buche e macerie il furgoncino con il suo carico di spaesata umanità raggiunse un bivio.
Lea, la sua mamma e Lalli, il nipote di 10 anni, (figlio del fratello fatto prigioniero in Africa orientale) furono fatti scendere dall’autista rosso vestito che aveva tirato fuori una scaletta.
Quando fu il turno di Lea, il porcone vermiglio ne approfitto’ per palpeggiare quella bionda che era un bene di Dio.
"Lei e' proprio un gran maiale..! si vergogni di approfittare di una donna sola.." Lea gli urlo' sul viso appena ebbe messo i piedi a terra.
"La colpa non e' mia ma sua, cara la superverginella. Perche' con quel culo sodo lei provoca, ha capito?" sbraito' il conducente quasi sputandole in faccia il pezzo di toscano che rigirava da una lato all'altro della bocca sdentata e puzzolente.
Aprì la porta del camioncino che poi sbatté con grande fracasso. Pigio' il bottone della accensione ma il motore elettrico fece un lamento e si bloccò.
Spazzolando tutti i moccoli e bestemmie del suo repertorio il porcone vestito di rosso uscì di nuovo dalla cabina del furgone, aprì una cassettiera sotto il pianale, ne tiro' fuori una manovella per la messa in moto mano.
"Ehi tu ", imprecò rivolto al quasi militare seduto con la famiglia sulla panca. "Vieni a darmi una mano altrimenti vi faccio scendere e andate a fan culo… Tanto i soldi li ho già presi e non ve li rendo…"
Lea, la sora Emma e il nipote si erano messi addosso borsoni e pacchi che contenevano un po' di cose da mangiare almeno per coprire i primi giorni di quella che già si presentava ormai come una esperienza non proprio positiva.
Lea si era caricata sulla spalla sinistra una valigia di fibra legata più volte con lo spago e cominciò la camminata.
La casa colonica dove avrebbero passato almeno un mese era distante piu' di un chilometro da quel bivio dove il camioncino il aveva lasciati.
Faceva caldo a quell’ora, si era ormai vicino al mezzogiorno, pero’ l’aria che si respirava era completamente diversa da quella di Borgo Pinti, piena della polvere delle case colpite dai bombardamenti alleati, dal rifiorire delle fogne dissestate in molti casi diventate a cielo aperto, da quel permanente odore di morte che gravava su ogni cosa.
Camminarono per più di mezz'ora, riposandosi ogni tanto quando trovavano qualche albero che faceva ombra.
Lasciarono la strada provinciale che era asfaltata e presero un viottolo che saliva su verso una mezza collina.
E videro la casa dove avrebbero trascorso un mese di vacanza, chiamiamola così.
Chiamare quel rudere “casa colonica”, sembro’ essere eccessivo per quei tre cittadini che, nonostante le sofferenze patite negli ultimi due anni a Firenze, erano comunque abituati a vivere in maniera civile. E pensare che quella era la patria di Leonardo da Vinci, appunto.
Faceva caldo, molto caldo. Ed era tutto un frinire di cicale assatanate sotto i raggi di un sole prepotente che si insinuava tra i filari ancora in piedi, gli scarni ulivi ed il resto della campagna desertificata per la mancanza di acqua, per l’assenza di manodopera perché gli uomini ancora validi erano stati catturati dai tedeschi che li avevano imbarcati su camion destinati -come si venne a sapere più tardi- ai campi di sterminio.
Oppure, proprio per sfuggire ai maledetti nazi e peggio ancora ai repubblichini, c’erano queIli che si erano rintanati in montagna con i partigiani, gente spesso di cultura, con i quali non era stato facile l’inserimento neIle brigate. E agli ex contadini-braccianti erano affidati compiti di manovalanza, perché gli servivano le loro braccia e non certo le loro teste di analfabeti.
“Madonnina mia”, disse la sora Emma varcando la soglia di quella stamberga.
Ed era il minimo che si potesse dire perché la stanza d’ingresso aveva un pavimento di ardesia nera punteggiato dalle merde di una decina di nane mute che facevano la posta sperando di spuntare qualche boccone sfuggito agli umani.
“Questa e' la vostra stanza”, disse una vecchia megera che puzzava di piscio stracotto lontano un miglio.
Non un sorriso e nemmeno un: "bene arrivati…".
Quella vecchia risecchita con una faccia scolpita nel legno e due occhi cisposi scrutava i foresti arrivati da Firenze dilaniata dalle bombe, dai duelli di artiglieria tra le due sponde dell'Arno, dai morti sparati dai cecchini e da quelli fatti fuori la sera verso le sette da Pippo, l'aereo cicogna attribuito ai tedeschi ma che invece era inglese, ed era temuto più dei bombardamenti delle fortezze volanti americane.
“Per lavarvi dovete andare aIl’acquaio e vi servite del secchio che pero’ dovete andare a riempire al pozzo, lì fuori neIl ’orto.”
In quell'acquaio scavato in una lastra di pietra si lavavano tutti i membri della famiglia che in quel momento erano fuori nei campi a cercare di rimettere a posto qualche sparsa coltura.
"La ritirata e' fuori, nel cortile. Dovete portarvi la carta… Qui ci sono alcuni pezzi di giornale che sono avanzati… Poi sono affari vostri…Quando il secchio del bottino e' pieno bisogna andare a versarlo nell'orto. "
La vecchia col volto scolpito di legno uscì ciabattando in cortile a rimestare qualcosa nel pollaio.
I tre cittadini appena arrivati da Firenze non è che fossero entusiasti di quella sistemazione. NeIla loro stanza c’era soltanto un grande saccone ripieno di paglia che scricchiolava quando ti ci sdraiavi sopra.
“Speriamo che non ci siano le cimici o altri insetti”, sospiro’ la sora Emma.
“Ma almeno riusciremo a mangiare qualcosa”, disse Lea un poco risentita anche perché si aspettava un’abitazione ben diversa da quel porcaio con le papere deambulanti e caganti.
E comincio’ quel mese di vacanza in un mondo assolutamente diverso da quello in cui avevano vissuto fino ad aIlora.
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“Lalli , vai a prendermi quella boccia di limonata che ho lasciato vicino aIl’acquaio.”, così Lea che insieme alla nonna Emma stava sdraiata su una coperta all’ombra del fico grande nell’orto vicino a casa.
Faceva un gran caldo a metà giornata e il ragazzo sperava di prendere qualche sorso da quella bottiglia di limonata prima di portarla fuori alla zia e alla nonna.
Arrivato alla soglia della cosiddetta “casa colonica” si fermo’ perché sentiva una voce di donna cantare “Fiorin, Fiorello, l’amore è bello vicino a te...”.
E sbircio’ all’interno della stanza principale.
Chi cantava era la Germana, una delle figlie del padrone di casa, avanti negli anni a detta delle vecchie che spettegolavano a veglia, la sera prima di andare a dormire.
La Germana rischiava di diventare una zitella secondo loro.
Si era lasciata con un paio di fidanzati durante la guerra, poi aveva conosciuto un militare tedesco durante l’occupazione, bello, biondo, atletico che riforniva la famiglia di pane scuro, cioccolata, wurstell in scatola. (ma di questo era meglio non parlare).
E ora, dicevano le male lingue, era una delle animatrici del bar Mokambo a Vinci che secondo molti altro non era se non un bordeIlo privato.
“Fiorin, Fiorello, l’amore e' beIlo vicino a te…” cantava la Germana, mezza nuda mentre si sciacquava le ascelle con l’acqua del secchio sporgendosi sopra l'acquaio scavato neIl’arenaria.
Lalli si era bloccato sulla porta e guardava quella meraviglia di carne rosata. Mentre si lavava con una pezzola la Germana scuoteva quelle poppe grandi e solide e lui sentiva un turbamento che saliva dal basso e lo teneva inchiodato su quella soglia da cui non osava muoversi.
"Fior di margherita, Cos'è mai la vita, Se non c'è l'amore che il nostro cuore fa palpitar.."
La Germana oltre ad essere una bella figliola era anche intonata e quella sua interpretazione di Fiorin Fiorello dipingeva un quadro fatto di bellezza, energia, voglia di amare, inno alla vita in un mondo di morte e distruzione.
C'era una catinella appoggiata su una panca vicino all'acquaio.
Germana la riempì con una brocca che si era portata lì vicino.
Sollevata la corta sottoveste un tempo rosa, adesso di un colore indefinito, si era messa a cavallo della catinella iniziando a lavarsi le sue parti intime. Ma era uno strano modo di lavarsi, piu' che altro una serie di delicate carezze da sotto in su.
"Fiorin Fiorello l’amore e' beIlo vicino a te…"
Germana si senti' osservata e si volto' verso la porta.
“Ma guarda questo bischerello di cittadino che mi sta a rimirare… Tu non l’hai mai vista una donna nuda, eh! pischello ?…”
E indossata una camiciola che aveva appoggiata sullo schienale di una sedia uscì di casa e passando per la porta fece una rapida lisciata di mano sulla patta dei pantaloncini del ragazzo che rimase inchiodato su quella soglia per qualche minuto, col fiato corto e completamente turbato.
"Lalli, ma ci porti questa limonata?" insisteva la zia Lea.
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Casaloste era il nome della frazione dove c'era la casa colonica che distava da Vinci un paio di chilometri.
Il Lalli era stato accettato dal gruppetto di ragazzini che si riunivano in uno spiazzo a qualche centinaio di metri da quel rudere.
In verità lo consideravano come un alieno, una entità strana, molto diverso da loro a cominciare da quegli occhiali che era costretto a portare sempre. E quanti ne aveva dovuti cambiare quando faceva a botte con quelli che lo sfottevano a scuola e lo chiamavano 'quattrocchi'..
E poi si capiva che lui doveva imparare come seguire le regole naturali del gruppo a cominciare dal rispetto dovuto a Moreno che con i suoi 12 anni era di gran lunga superiore a lui e agli altri, ma soprattutto si capiva che era un capo branco nato.
Quando il Lalli era stato costretto a dire che frequentava le elementari dalle monache domenicane a Firenze, Moreno (subito seguito da tutti gli altri accoliti) si era esibito in sghignazzate punteggiate da bestemmie colorite mentre si accendeva una cicca trovata chissà dove, forse in un pacchetto di sigarette lasciate dai tedeschi.
Aggiungi poi che Moreno era almeno una spanna più alto del Lalli e quindi era facile per lui imporsi con la sua statura su quel cittadino che non parlava il vernacolo pesante con il quale comunicavano tutti gli altri membri del gruppo ma si esibiva qualche volta, quando doveva rispondere a delle domande precise di Moreno, in un italiano senza inflessioni dialettali. Perché così la zia e la nonna gli avevano imposto come regola di principio dato che il fiorentinismo non gli stava bene a mano. Ma Lalli in quella combriccola cercava di imitare il loro vernacolo per farsi accettare.
Moreno comandava su un gruppo di cinque ragazzini più la Milena.
Quanti anni poteva avere Milena? Sette, otto. Difficile a dirsi e forse non lo sapeva nemmeno lei. Milena era la figlia non voluta della Giuseppina Greganti che una mattina era stata trovata scannata in un campo dietro la sua casa ai bordi della frazione.
Si sapeva fino a Vinci che la Giuseppina era una ninfomane, sempre in cerca di un maschio che la coprisse, odiata da tutte le altre donne perché la Giuseppina ai loro uomini faceva un trattamento che loro nemmeno si sognavano di fare. E del resto non è che lei chiedesse qualcosa in cambio delle sue prestazioni sessuali . Non era una professionista ma solo una giovane donna, nata così, con quella voglia impetuosa e insopprimibile di maschio che la faceva uscire tutte le notti a caccia di qualcuno, mentre durante il giorno stava rintanata a letto, infischiandosene della figlia Milena che tanto a quella ci pensava la nonna disperata per trovare qualcosa da mangiare ogni giorno.
Quanti anni poteva avere Milena? Comunque era un esserino magro da far paura, ma il visino era bello, aggraziato da un paio di occhi celesti con quel cespuglio di capelli biondi che le ricadevano in parte sulle spalle.
Ma erano proprio quegli occhi celesti che ti mettevano a disagio quando Milena incrociava il suo sguardo con il tuo.
Era come gettarsi in un lago ghiacciato, Milena non aveva espressioni, sembrava un automa.
Perché Milena facesse parte del gruppetto di Moreno il Lalli non riusciva a capirlo. Ma dopo tutto non era che questa fosse una domanda essenziale: Milena c’era e partecipava alla vita di gruppo come gli altri.
Solo che non parlava mai, tanto da far credere che fosse sordomuta. Ed invece Moreno aveva detto al Lalli che la Milena ci sentiva bene ma non aveva voglia di parlare. Ogni tanto sembra che modulasse qualche motivo di quelli che la radio aveva ricominciato a trasmettere. Ma erano momenti rari.
Il secondo giorno che il Lalli era stato ammesso nel gruppo (e nessuno poteva permettersi di protestare visto che il cittadino era nelle grazie, si fa per dire, del capo Moreno)… proprio Moreno si era esibito in una delle sue trovate.
“Questo è Pietro, accanto c’è Luigi, poi Paolo, questo è Benito (pero' è meglio chiamarlo Ganzo perché con quel nome rischia di essere menato.). E questa è la Milena che adesso ti fa vedere la passera… Dai Milena: fagli vedere la passera al Lalli che sono sicuro non l’ha mai vista in vita sua…”
E la Milena eseguiva, chissà quante volte lo aveva fatto, soIlevando la vestina piena di macchie che la copriva e scoprendo la passerina nuda perché non portava le mutande.
Lo faceva senza una parola, con la sua faccina triste e lo sguardo assente perché Milena nel gruppo ci stava solo perché era una ritardata e secondo Moreno faceva comodo perché la potevi comandare a fare i lavori, come per esempio portare un secchio d’acqua presa dal pozzo, aiutare a tagliare per tutti qualche pezzo di schiacciata rubata allo spaccio mentre Moreno contrattava l’acquisto di un etto di mortadella.
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“Oggi è una giornata speciale”, disse Moreno al gruppo. E gli altri si guardavano in faccia perché non riuscivano a immaginare quanto di speciale ci fosse in quella giornata con un sole che picchiava duro e i milioni di cicale che frinivano a più non posso e bisognava stare attenti perché ti mandavano fuori di testa.
“Ma che ci sarà di tanto speciale?”, si azzardo’ a chiedere Ganzo rischiando molto perché Moreno non ammetteva che fossero messe in discussione le sue decisioni con domande sceme.
“Mettetevi le scarpe perché dobbiamo passare in una zona piena di vetri e metalli.”, disse Moreno senza curarsi di rispondere a Ganzo.
“Io le scarpe qui non ce l’ho. Me le metto solo la domenica per andare in chiesa altrimenti il prete mi manda via e non mi fa servire Messa.” Ganzo era in vena di proteste quella mattina. Ganzo in chiesa ci voleva andare perchè riusciva ogni tanto a scolarsi un il vino della Messa. E poi il prete gli allungava un po' di pane e salame in cambio di...ma di questo si rabbuiava e non voleva parlare.
Moreno scrollo’ le spalle e si alzo’ prendendo un viottolo laterale che portava alla boscaglia distante più di un chilometro. Era lì che c’erano stati gli scontri tra i nazisti e i partigiani alcuni dei quali erano stati presi dai tedeschi e poi fucilati sul posto dopo averli torturati per avere informazioni sulle altre brigate che combattevano nella zona.
“State attenti a dove mettete i piedi. Tu Milena vai avanti…”
E gli altri del gruppo avevano pronta la battuta “Così se trovi una mina salti prima tu…”. Ma non la dissero perché Moreno non era uno che apprezzava quelli che facevano gli spiritosi.
Su quel sentiero comunque dovevano esserci passati in molti, magari trascinando qualche obice o mitraglia pesante.
Camminavano guardinghi e nessuno parlava. Moreno era passato in testa e aveva accelerato il passo, tanto che gli altri stentavano a stargli dietro e la Milena ormai era in fondo al gruppo e distaccata di una decina di metri.
Arrivarono finalmente in un boschetto che, a giudicare dai pezzi di carta di giornale sparsi ovunque, era stato considerato una latrina a cielo aperto da tedeschi e partigiani.
Moreno era arrivato a un bivio del viottolo. Prese a destra e rallento’ la marcia perché quel sentiero era ormai una salita di tutto rispetto.
“Moreno sono stanco, ci si potrebbe fermare…?”, dissero un po’ tutti.
“Avanti, forza, siamo quasi arrivati.”
Davanti a loro si presentava un bunker costruito dai tedeschi per controllare parte della vallata fino a Vinci.
Moreno dimostrava di conoscere bene quel posto per esserci stato chissà quante volte dopo che i nazisti si erano ritirati al di là della linea gotica.
“Adesso restate qui che vado dentro a prendere una cosa, tanto lo so che siete dei cagasotto e avete paura di entrare...”, disse Moreno.
L’invito fu accolto con grandi sospiri di sollievo perché quei ragazzi non ne potevano più di camminare e quanto a Ganzo che non aveva le scarpe, nonostante il callo ai piedi si era procurato diversi tagli superficiali quanto si vuole ma comunque il sangue si era raggrumato.
Pero' quell'accusa di essere dei cagasotto non gli andava bene e, nonostante la stanchezza e il mal di piedi, si avvicinarono ed entrarono con Moreno dentro il bunker.
" Porca troia e questo che e' ?" esclamo' Ganzo infiorettando con un moccolo tanto poi si confessava dal prete.
"E' un nazi, morto stecchito piu' di un anno fa, sopra le ossa gli e' rimasta un po' di uniforme con le patacche delle SS. Ma a me non interessano perche' non lo voglio toccare. Questi rotti in culo di tedeschi anche da morti son capaci di infettare e ammazzare gli altri..."
Parlando Moreno indicava ai compagni quell'ammasso di pezzi di stoffa sopra quel che restava delle ossa perche' chiaramente gli animali della zona si erano riempito lo stomaco per qualche settimana.
“Ecco guardate: questo è un proiettile di obice ancora carico. Non c’è da aver paura perché mi hanno insegnato come si fa a togliere la spoletta per evitare che si inneschi e scoppi.”
Moreno si era accoccolato su un gradino della scala del bunker e teneva sulle ginocchia il proiettile al quale mancava la spoletta. Comincio’ a inclinarlo a fatica perche' era pesante, ne fece uscire la polvere nera con la quale si mise a disegnare un percorso di qualche metro.
Poi, appoggiata la munizione contro un muro, estrasse dalla tasca dei pantaloni una scatola di svedesi e dette fuoco a un fiammifero che accosto’ al terminale della polvere da sparo.
La fiammata che ne seguì si propago’ velocemente per tutta la linea che Moreno aveva disegnato per poi esaurirsi contro un grumo di erba.
“Che ne dite? Bello vero? Sembra lo scoppio del carro nel Duomo a Firenze. Mi ci hanno portato a Pasqua. C’è qualcuno che vuole un po’ di polvere?”
E il Lalli si ritrovo’ a mettere in tasca dei calzoncini sdruciti un po’ di quella polvere nera avvoltolata in un pezzo di carta che sembrava non usato trovato lì vicino.
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Era il 10 settembre e la scuola aveva ricominciato a funzionare dopo la chiusura precaria durante ”l’emergenza”, periodo in cui Firenze era un campo di battaglia con da un lato del fiume Arno gli Alleati che non si decidevano ad attraversare il fiume sui nuovi ponti Bailey che i genieri inglesi stavano montando visto che i ponti erano stati fatti saltare dai nazisti in ritirata, meno il Ponte Vecchio ma tanto le strade adiacenti erano state distrutte.
E daIl’altro lato c’era la Firenze occupata ancora dei tedeschi e dai repubblichini che rastrellavano gli uomini e i giovani che si avventuravano nelle strade. Mentre cadevano le bombe delle incursioni aeree sui nodi ferroviari anche se spesso le bombe cambiavano tragitto. La notte era disegnata dai traccianti sparati da una sponda e l’altra dell’Arno.
Dunque la scuola delle suore domenicane in via Manzoni aveva ricominciato a funzionare.
Il Lalli per cinque anni era stato sull’albo d’onore, un quadro all’ingresso principale dell’edificio sul quale venivano segnati i nomi degli studenti migliori. Lui era il numero uno.
Doveva concludere il quinto anno e poi ci sarebbero state due sessioni di esami, la prima interna aIla scuola e la seconda in un istituto pubblico dove gli studenti privati dovevano essere esaminati con maggiore attenzione rispetto a quelli delle scuole pubbliche, dato che si presupponeva che venissero da famiglie che se lo potevano permettere. Ed allora era meglio valutare se erano preparati o se cercavano di entrare alle medie con ingressi facili.
Ma il Lalli non era più lo stesso di qualche mese prima. Quella mesata trascorsa a Casaloste con quegli altri ragazzi lo aveva molto modificato, lui cresciuto in mezzo a donne con la proibizione di scendere in giardino a giocare con gli altri ragazzi perché, dicevano le zie e la nonna, erano troppo maleducati. Figurarsi.
Quelli di Casaloste e Vinci erano un mondo a parte, ma sapevano come campare alla giornata.
C’era stata la guerra e tutto era cambiato, tutto era stato ribaltato, c’era solo la voglia di sopravvivere, un sentimento animalesco quanto vuoi ma quando sei circondato dalla morte, dalla fame, dalle malattie, dal terrore, dalla mancanza di un futuro, allora vivi per l’essenziale… Tutto era cambiato, tutto era stato ribaltato. Ma i ragazzi di Vinci e Casaloste erano forti dentro anche se analfabeti.
I compagni della quinta A erano in gran parte quelli della quarta dell’anno prima. Ma quando si incontrarono con il Lalli durante la ricreazione rimasero ammirati dalle descrizioni che quello faceva delle esperienze passate.
Ad un certo momento il Lalli tiro’ fuori il pacchetto con la polvere nera che distribuì facendo una linea che andava lungo una parete del corridoio principale della scuola. Si era armato di una scatola di fiammiferi e a dimostrazione di quanto fosse importante l’esperienza campestre che aveva fatto, dette fuoco alla polvere da sparo che si incendio’ annerendo la parete del corridoio. I compagni ammutoliti erano in ammirazione.
Dopo questo episodio che sconvolse le monache si riunì il consiglio scolastico che avrebbe dovuto radiare il Lalli dalla scuola impedendogli di sostenere gli esami.
Ma quel ragazzino occhialuto era anche il portabandiera da anni del livello di insegnamento di quella scuola privata. Bisognava tenerlo ancora per un anno sperando che riuscisse ad essere il numero uno ai doppi esami a conclusione delle Elementari prima di passare alle medie inferiori pubbliche.
Fu deciso che gli sarebbe stata comminata una dura punizione con esclusione da ogni ricreazione e voti negativi in condotta.
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“Te lo ricordi Moreno, quel ragazzotto che stava lì a Vinci in quel gruppo che si vedevano tutti i giorni?”, disse Lea alla mamma un giorno mentre rammendavano calzini e magliette.
“Sì me lo ricordo”, disse nonna Emma guardando la figlia che cuciva, “Che è successo?”
“Me l’ha detto Antonio quello della cosiddetta casa colonica dove siamo stati. Aveva la passione delle bombe ed è saltato in aria mentre armeggiava un bossolo… Poveraccio.”
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Per chi preferisce vedere e ascoltare
Parte prima https://youtu.be/agkkM1PkzyM
Parte seconda https://youtu.be/5ygjxNV978U
Parte terza https://youtu.be/kO1P-XXL8LQ
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Che devo dirti? L’ho letta (giuro!) due volte: una per la storia… e una per inebriarmi dell’arte letteraria!
Spero stia preparando un libro di splendidi racconti..?? Mi prenoto!
Sei veramente estroso !!
Un abbraccione anticovidiano !
MLuisa
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Grazie! Che descrizione dettagliata! L’ho dovuta rileggere due volte per accettare l’idea che eri tu quel ragazzetto!😱
Un abbraccio da Los Angeles, Emanuela
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Ago Volta
Ago Volta