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Daghela avanti un passo…

 Alberto Pasolini Zanelli 

Daghela avanti un passo… Non solo le parole, ma anche il ritmo di questa canzone marziale e risorgimentale si poteva, fino a poche ore fa, riesumare e adattare a una delle “spedizioni” della Superpotenza americana. E questa volta il passo era, fino a poche ore fa, all’indietro. Joe Biden era stato il terzo presidente in fila ad auspicare, annunciare e cominciare una manovra senza precedenti nella storia degli interventi militari Usa in Paesi e continenti anche lontani, in genere a fini almeno prevalentemente umanitari e in una specie di comandamenti di una religione nazionale. 

Questa volta si erano rilevate più volte diverse differenze, a cominciare dall’annuncio: i soldati americani se ne andranno dall’Afghanistan tra poche settimane, lasciando nelle mani di un “governo amico” con una previsione generosamente ottimistica: l’emergere di un regime almeno in parte democratico dopo la sconfitta di una fazione estremista, violenta e fanatica come i talebani. Così – aveva annunciato la Casa Bianca – finirà una guerra durata vent’anni e nata da un’altra guerra e così via. Una guerra “civile” che aveva visto coinvolta l’Unione Sovietica e poi gli Stati Uniti. La prima ufficialmente sconfitta, come annunciato da Gorbaciov personalmente a Ronald Reagan in visita a Mosca per costruire la Distensione. 

Spariti i russi e dunque gli antirussi, spuntarono gli americani e gli antiamericani, ultimo capitolo di una guerra impropriamente mondiale e ferocemente “religiosa”, i cui protagonisti si autodefinivano “studenti di teologia”. La presenza militare Usa parve spazzarli via abbastanza agevolmente, ma poi sono “risorti” e sono stati gli americani ad annunciare di voler andarsene. La previsione era che un governo “moderato” avrebbe saputo difendersi. Tutti sappiamo ormai che è andata in tutt’altro modo. Appena ricevuta la notizia, i talebani hanno ricominciato a Daghela avanti un passo. In poco più di una settimana hanno conquistato la maggioranza delle province dell’Afghanistan e dei centri di potere provinciali. Adesso stanno marciando sulla capitale Kabul, nella quale fino a poche ore fa si stava creando un’atmosfera molto simile a quella di quasi mezzo secolo fa vissuta da Saigon capitale del Vietnam, con le scene degli ultimi soldati Usa che si imbarcano sugli aerei e dei loro alleati locali che non trovano un sedile per evadere dall’incombente mortale epurazione. 

Si levarono, anche in America, voci di protesta per l’apparente disinvoltura di nuovo emergente ai danni di un alleato debole. Mancavano ormai giorni alla conclusione dell’operazione che molti chiamavano “imbarco”. L’aeroporto di Kabul somigliava quasi troppo a quello di Saigon. 

Adesso, forse, non andrà così. Lo stesso presidente Usa che aveva deciso di dare l’annuncio dell’“abbandono” dell’ultimo alleato e annunciato che non riporta a casa tutti i suoi soldati: anzi ne manderà urgentemente altri tremila. Per una controffensiva? Formalmente no: la spiegazione della Casa Bianca è che quei soldati americani sbarcheranno in Afghanistan per aiutare e “coprire” i loro camerati che dall’Afghanistan se ne andranno. È un nuovo capitolo ancora più senza precedenti in tutti gli altri. Un “cambio della guardia” i cui precedenti si trovano a fatica nei libri di storia, non solo contemporanea. Biden non ha finora spiegato certi “dettagli”. Diverse proteste si sono levate negli ambienti militari di Washington e dintorni. E il dibattito ha resuscitato dei precedenti finora cancellati o “coperti”. Si rimescolano, fra l’altro o soprattutto, le responsabilità di tre presidenti. Viene fuori che non solo Biden ha continuato, in altra forma e più cautela, una operazione annunciata in toni più fervidi e meno prudenti, dal suo predecessore Donald Trump. Ha scambiato soltanto le date, introducendo un anticipo all’operazione conclusiva. 

Ma questo non è tutto: ad emergere è stata in poche ore la rivelazione che l’idea era venuta al predecessore di Trump, cioè a Barack Obama, che aveva preso quella decisione, in un quadro più cauto, rifacendosi però a un progetto analogo che era stato studiato per applicarlo non all’Afghanistan bensì all’Irak, da decenni il “centro” delle tensioni e delle guerre mediorientali. Obama si era orientato anche tenendo conto dell’impopolarità di quella politica, che già sette anni fa aveva l’appoggio soltanto di un cittadino americano su tre. Il progetto originario prevedeva il rimpatrio dell’ultimo marine entro il 2010, ma una soluzione “pacifica” era già stata bloccata dalle offensive dello Stato Islamico, un prodotto di Al Qaida, travolgendo anche reparti americani. Obama voleva evitare un bis in Afghanistan, ma aveva bisogno di più tempo e pensò di averlo trovato ricorrendo a una “soluzione” originale: gli americani dovevano rimanere in Afghanistan, ma senza combattere, senza essere coinvolti in quella guerra civile. Nel frattempo, i bombardieri, gli elicotteri, i droni avrebbero continuato a colpire le forze talebane. Solo nel 2015 e 2016 (gli ultimi due anni di presidenza Obama) furono lanciati in 2.284 occasioni missili o bombe. E anche le operazioni terrestri sarebbero state limitate a punti cruciali “antiterrorismo”. Una strategia che Biden fece propria formulandola così: “Gli Stati Uniti continuano ad essere impegnati nella sicurezza e stabilità dell’Afghanistan di fronte alla violenza dei talebani”. Una strategia che ha mostrato in un paio di settimane il suo fallimento, soprattutto perché le forze armate del governo di Kabul hanno finora capitolato in massa di fronte all’avanzata degli estremisti. Più rapidamente che non Daghela avanti un passo. 

Pasolini.zanelli@gmail.com 

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