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Ritirata Usa e Nato: il ruolo dell’Italia dopo la guerra in Afghanistan
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 15 agosto 2021
Il ritiro degli Stati Uniti e della Nato dall’Afghanistan è un avvenimento scontato ma, nello stesso tempo, tragico.
Scontato perché l’opinione pubblica americana, ormai da molti anni, non accetta più il ritorno dei ragazzi morti o feriti per guerre lontane, in paesi dei quali essi conoscono a mala pena l’esistenza.
Si ripete oggi quanto già avvenuto nel caso irakeno: il ruolo di definirsi gendarme del mondo a difesa della democrazia diviene un sentimento sempre più flebile con l’allontanarsi dall’emozione provocata dai tragici avvenimenti dell’11 settembre di vent’anni fa.
Per questo motivo la decisione di Biden è solo il proseguimento di una linea già preparata da Obama e Trump ed è per lo stesso motivo che le polemiche interne alla politica americana sono assai tenui rispetto a quanto solitamente avviene in casi di tale importanza.
Le divergenze si esprimono con asprezza unicamente nei confronti di aspetti particolari, anche se di grande valore umano ed emotivo, come il ritardo e l’inefficacia della protezione nei confronti di coloro che avevano partecipato alla lotta contro i talebani, a cominciare dagli interpreti per finire con chi aveva svolto un qualsiasi lavoro nelle basi logistiche della Nato.
Un avvenimento tuttavia tragico perché crea milioni di profughi e sta sostanzialmente abbandonando l’Afghanistan ai Talebani in tempi più rapidi rispetto ad ogni previsione.
Già Kandahar ed Herat (seconda e terza città del paese) sono cadute e l’esercito nazionale, per la cui ricostruzione e il cui addestramento sono state spese somme immense, non sembra porre alcuna resistenza efficace, anche per la corruzione e la non credibilità del governo afghano, che ha invano tentato di mettere un freno alla propria debolezza sostituendo per ben tre volte il vertice delle proprie strutture militari.
La tragedia non si limita al campo militare, ma coinvolge anche quello umano e politico. L’avanzata dei talebani è infatti così rapida per cui, vincendo facilmente sul terreno, essi non saranno spinti a trattare o mediare né riguardo al trattamento della popolazione né su qualsiasi comportamento del governo futuro.
Gli episodi di brutalità, dei quali giungono sempre più numerose evidenze, non potranno che moltiplicarsi, con tragedie umane che, nei mesi futuri, riempiranno i media ma, riguardo alle quali, non avremo alcuna possibilità di intervenire.
È inutile inoltre nascondere che questa pur prevedibile ritirata sta portando uno sconcerto politico a livello mondiale.
La fiducia che gli Stati Uniti siano in grado di proteggere i loro alleati viene totalmente messa in crisi dall’abbandono di un’operazione militare che pure era stata fortemente voluta dagli americani stessi che, come nel caso irakeno, pensavano di poterla concludere in un breve spazio di tempo.
Questa sfiducia, seppure in modo meno diretto, tocca anche l’Europa, che dimostra ancora una volta di non essere in grado di costruire una politica estera e una politica militare capace di esercitare una concreta influenza nei confronti dell’alleato americano.
L’avanzata talebana in Afghanistan non mette in crisi soltanto le democrazie occidentali, ma produce anche profondi cambiamenti in tutto il mondo islamico.
L’Egitto, l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo si sentono direttamente minacciati da questa così rapida evoluzione che, a sua volta, apre inaspettate possibilità di movimento a Turchia e Quatar, paesi che non si erano certamente schierati con la stessa intransigenza nei confronti dei Talibani e che stanno esercitando una presenza sempre più attiva nel mondo asiatico.
Molti analisti stanno inoltre osservando con estrema attenzione il comportamento del governo cinese che, solo poche settimane fa, ha ricevuto con un certa solennità una delegazione ufficiale dei Talebani.
Non vi sono elementi per pensare che questa missione si sia trasformata in un’alleanza, anche perché il problema politico forse più complesso che il governo cinese deve affrontare è proprio il rapporto con la minoranza islamica degli Uiguri e la Cina conosce bene come sia difficile fare accordi con chi fonda le proprie strategie su un’assoluta intransigenza religiosa.
Più facile è prevedere che la Cina scelga di intensificare i propri rapporti con il Pakistan, paese che, più di ogni altro, ha protetto e fiancheggiato l’attività dei Talebani. Appoggiando attivamente il Pakistan la Cina raggiungerebbe il duplice obiettivo di rafforzare il fronte anti-indiano e di esercitare una crescente influenza sull’Afghanistan.
Un’evoluzione che, a sua volta, obbligherà gli Stati Uniti ad affrontare il problema dell’ambiguità del Pakistan, paese che si è finora retto su un delicato ed equivoco equilibrio fra l’Occidente e gli oltranzisti islamisti.
Siamo quindi di fronte a prospettive di radicali cambiamenti mondiali, ma costretti anche a compiere un’amara riflessione sull’Italia. Alla missione afghana abbiamo infatti dato un grande e generoso contributo. Ricordando prima di tutto i 53 morti e i 723 feriti tra i nostri soldati, non possiamo nemmeno sottovalutare gli otto miliardi spesi per il sostegno della nostra missione.
A questo dobbiamo anche aggiungere (e non è retorica) che la nostra presenza è stata dedicata non solo all’aspetto militare ma anche alla ricostruzione civile della regione di Herat che, proprio negli scorsi giorni, è stata conquistata dai Talebani, ponendo fine ad un’opera che aggiungeva ad un obiettivo militare un grande contributo al progresso civile e sociale della regione.
Per questi motivi abbiamo il diritto e il dovere di esercitare un ruolo politico attivo nei confronti delle enormi conseguenze che saranno provocate dalla fine della guerra in Afghanistan.
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