La lettera parla chiaro: la cermonia del giuramento comincia alle 13. Percio' e' meglio arrivare prima.
Ammaestrato dall'esperienza della mia 'naturalizzazione' sette anni fa a Washington (eravamo in ottanta nell'aula della seconda sezione della Corte d'appello federale) dico a mio figlio (candidato per ricevere la cittadinanza americana) che basta arrivare dieci minuti prima. Scuote la testa. "Prima di tutto bisogna andare in downtown e questa e' una delle varie ore di punta a Los Angeles. In secondo luogo credo che saremo almeno un centinaio.", mi dice.
Arriviamo nei pressi del Convention Center. Sulla destra ci sono ampie zone di parcheggio con uomini ad ogni varco che agitano delle bandiere rosse per invitare i candidati e familiari ed amici ad entrare. Tariffa flat 15 dollari da pagare subito.
Si parcheggia e ci dirigiamo verso il centro congressi. Fuori un serpentone articolato di migliaia di persone gia' in attesa di entrare. Sotto il sole che rende quasi grottesca questa fine di gennaio (soprattutto se uno pensa allo snow storm che affligge da giorni il Nord Est) immersi nella folla multietnica ci muoviamo celermente verso l'ingresso.
Nella grande hall due cartelloni con le scritte: candidati, ospiti. E cosi' vengo separato da mio figlio e mi avvio verso il recinto degli ospiti le cui sedie sono in gran parte gia' occupate da persone venute chissa' a che ora.
Quanto ai candidati, inseriti in un altro serpentone, sfilano fino a che raggiungono qualcuna delle centinaia di postazioni addossate alla parete sinistra dell'enorme aula del Convention Center.
Ognuno deve presentare la propria carta verde, come invitano gli altoparlanti e gli verra' consegnato il certificato di naturalizzazione che non deve essere firmato fino a che la cerimonia non sara' completata.
Sono le una e 45 e finalmente i candidati hanno trovato il proprio posto a sedere. Un giudice donna, toga nera regolamentare, si avvia al microfono. E spiega ai 5996 (si', avete letto bene!) candidati che cosa significa essere cittadino americano, quali sono i dritti e i doveri di ogni candidato che porta in questa nazione-continente usi, costumi e tradizioni culturali della propria nazione di origine. Di quattro soldati, appena rientrati dall'Afghanistan e dall'Iraq viene letto il nome. Anche loro stanno per diventare cittadini americani.
Viene letto il giuramento che i quasi seimila ripetono paragrafo per paragrafo. Poi tutti in piedi candidati e ospiti a recitare il 'pledge of allegiance', la dichiarazione di fedelta' alla Bandiera.
I pledge allegiance to the flag
of the United States of America
and to the Republic for which it stands
one nation under God,
indivisible,
with liberty and justice for all.
Fa ridere gli italiani molti dei quali sulla bandiera tricolore ci sputano. Ma qui in America la bandiera a stelle strisce e' il simbolo dell'unita' nazionale, il collante di tante genti dalla pelle di colore diverso, di tradizioni, religioni, ateismi diversi. Ma un solo popolo, soprattutto quando si tratta di reagire alle aggressioni, alle tragedie nazionali, allo sconforto generalizzato per i guasti dell'economia causati dall'insipienza di chi governa.
Viene proiettato un breve filmato commentato da una splendida canzone su gli USA e la cerimonia si chiude in un tripudio di battimani, gridolini e sventolio di bandiere.
I seimila nuovi cittadini si rimettono in fila ai vari banchi per ritirare le proprie carte e firmare ricevute.Chiedo a Marco se sia soddisfatto di essere diventato cittadino sotto un presidente come Barack Obama che, si spera, rimettera' a posto le cose del mondo.
"Ci sono presidenti buoni e presidenti cattivi", mi dice con aria molto seria. "Ma c'e' una sola patria: questa. Da oggi ne faccio parte a pieno titolo."
Rimango di stucco. Noi genitori ci accorgiamo all'improvviso che i nostri figli sono cresciuti.
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