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9 novembre 1989



Alberto Pasolini Zanelli
Le celebrazioni dei grandi eventi sono fatte, più spesso che no, dalla coincidenza di tanti piccoli fatti e parole. Che vanno lette tutte assieme, altrimenti si rischia di riscaldare un ricordo in forma molto inesatta. Lo si è visto anche nelle ultime ore quando è stato ricordato uno dei fatti che hanno dipinto il ritratto finale del ventesimo secolo, in colori e in forma in buona parte non fedele. Dicono che il 9 novembre 1989 sia “cambiato il mondo”, oppure l’Europa, oppure la Germania. E invece converrebbe forse guardare se e quanto e in che direzione è cambiata Berlino. Fuori dalle inevitabili rievocazioni retoriche e anche da parole “alternative”. La realtà è quasi sempre più complessa, contraddittoria. Cominciano dal basso, l’ex Germania Orientale si appresta a segnare un quarto di secolo di unità nella libertà installando il primo “governatore” comunista di una sua regione. È, per la cronaca, la Turingia, che in base al voto del settembre scorso e dopo laboriose consultazioni, vedrà ora nascere un governo di coalizione: i socialdemocratici più i Verdi più quel partito che si chiama oggi “Die Linke”, “La Sinistra” ma che discende direttamente dalla Sep, Sozialistische Einheit Partei, il partito “Unità Socialista” formato subito dopo l’occupazione sovietica. Non è un evento drammatico, forse è solo una curiosità, ma è indicativo di qualcosa: che la concentrazione dei sentimenti e delle volontà sul passato comincia a diluirsi fra le opportunità del presente, anche meschine, e i temi del futuro. Fino adesso al potere in Turingia c’è la Cdu della signora Merkel, in coalizione con i socialdemocratici, che però dall’ultima “conta” alle urne sono crollati al 12 per cento, un segno di stanchezza che li ha indotti al salto della quaglia. Non ci saranno conseguenze, il resto della Germania se ne dimenticherà entro un paio di settimane, l’Europa neppure se ne accorgerà. Rimarrà soprattutto come segno che niente è così semplice.
Così come sono indicative altre piccole novità che si vedono a Berlino. Per esempio che l’ex Est è in questo momento più dinamico dell’ex Ovest. Tuttora più povero, ma più carico di novità. A cominciare dal traffico: è stato osservato che su una linea della metropolitana, da Alexanderplatz all’Ostbahnhof, alle due di notte non c’è libero un posto a sedere, mentre le “perle” notturne di Berlino Ovest sono deserte, al punto che alcune tratte sono state cancellate. È capovolta l’immagine di una impressione musicale di altri tempi, quando Milva cantava in Alexanderplatz, “e la sera rincasavo sempre tardi / solo i miei passi lungo i viali”. Sono più affollati gli itinerari di un’altra donna dell’Est, Angela Merkel, cui è toccato in qualche modo capovolgere i dati costitutivi della Germania unita: il potere economico e politico dominante sempre più all’Ovest, ma rilocato in qualche modo dall’altra parte di dove c’era il Muro. Quella riunificazione che venne così all’improvviso che non se ne erano accorti neppure i Poliziotti del Popolo comunisti, quella porticina secondaria che si aprì come sbattuta dal vento, quella gente che nel cuore della notte saliva sul Muro, calpestandolo, per guardare oltre.
Berlino non aprì, in realtà, un’“era nuova” alla Germania e all’Europa: Berlino seguì. Erano i giorni in cui il mondo stava cambiando ovunque, in uno smilzo quadernetto di immagini si affollavano la foto dell’ultimo bacio – proprio sulle labbra – fra Mikhail Gorbaciov e Erich Honecker a celebrare l’eternità di un’amicizia, l’ordine del governo ungherese alle guardie di frontiera di come affrontare gli emigranti clandestini (“Sparate in aria e, chi non si ferma, mandatelo con Dio”), l’eruzione di nazionalismo serbo dalle rovine della Jugoslavia (“Ovo je Srbija”, “Qui è Serbia”) scandita su un campo di battaglia medioevale e di storica sconfitta.
La Germania non era sola. La Germania era, naturalmente, più importante. Era la nazione che, piaccia o no, lo voglia o no, non è mai stata e mai sarà uno fra i tanti Paesi d’Europa. Così come l’Italia è, come dimostra dai giorni del suo Risorgimento, “troppo forte per essere piccola e troppo debole per essere grande”, la Germania ha troppe cose che la uniscono per non gettare semi di divisione e cose troppo radicate che la ostacolano nell’aspirazione a un primato che oggi è d’uso chiamare leadership. Un Reich è qualcosa di più di una patria, eppure gli manca qualcosa per godersi la sua forza e la sua bravura. Con la sua prima riunificazione (quella celebrata in armi nel Salone degli Specchi di Versailles) cambiò di colpo la scala e l’equilibrio dei poteri in Europa. La seconda, quella piovuta dal crollo di un Muro, modifica, più per fatalità che per volontà, i parametri stessi con cui si misurano i rapporti di forza. La Signora venuta da Berlino Est non ha certo la mano leggera, suscita irritazioni e risuscita risentimenti che era bello poter credere annacquati dalla Storia; ma ciò che ella chiede, vuole, pretende da noi suoi “soci” è riassumibile in modesta contabilità. Qualche mese fa l’Economist ha dedicato a Frau Merkel un ritrattino malizioso e familiare, disegnandola come la proiezione di un prototipo affettuosamente caricaturale: una “schwaebisch Hausfrau”, una “casalinga sveva”, attenta all’ordine, alla pulizia, al risparmio, al bilancio domestico in pareggio. Insomma, dedita a un continuo Patto di Stabilità: per sé, per la famiglia, per la patria, per l’Europa. Angela Merkel non è sveva: è nata ad Amburgo, è cresciuta nel Nord, esposta ai venti del Baltico. Ed è cresciuta da quel lato del Muro dove tutte queste domestiche virtù erano necessarie per sopravvivere. Ma non meno indispensabili in una situazione tanto mutata: i conti sono conti e non consentono sconti. Dedito è parola impronunciabile. Bisogna andarci piano con le spese, soprattutto quelle per gli altri. Questo vale anche per Berlino: che quelli dell’Est vivano una vita finalmente più eccitante, tornino a casa nel colmo della notte. Ma che al mattino vadano in ufficio in orario.