Alberto Pasolini Zanelli
Il nuovo presidente rumeno viene
dalla Transilvania. E fin qui niente di strano: dopotutto quest’ultima fa parte
della Romania, anche se il suo “cittadino” più famoso nel mondo fu fino a ieri
un vampiro di nome Dracula. La novità è che Klaus Iohannis, che ha detronizzato
Victor Ponta, è tedesco, membro cioè di quella ora piccola minoranza che si
definisce Siebenbuergen, un gruppo etnico che aveva perduto ogni potere e prestigio
dopo la Seconda
guerra mondiale. Il presente vince evidentemente sul passato, soprattutto da
quando la Romania
è entrata in piena parità di diritti nell’Unione Europea, ben decisa a restarci
e a trarne il massimo dei vantaggi possibili. Iohannis non mancherà di mostrare
tutto il suo zelo di “occidentale”, nei rapporti con Bruxelles e, attraverso la Nato, con Washington.
Bucarest si propone così come
modello alternativo a Budapest, teatro di uno degli sviluppi più interessanti
(qualcuno dice “inquietanti”) nel campo dei Paesi usciti esattamente
venticinque anni fa dall’orbita sovietica. Il primo ministro ungherese Viktor
Orban non solo ha conservato il posto ma ha visto la propria popolarità
accresciuta ad ogni appuntamento elettorale. La sua strategia riflette la sua
personalità: ama le luci della ribalta, è un personaggio popolare quanto
populista (c’è chi lo paragona a Berlusconi anche in quanto “proprietario” di
una squadra di calcio) ma le carte che egli ha in mano e gioca sono soprattutto
due: economia e nazionalismo. Sotto la sua guida Budapest è riemersa dalla
grande crisi europea, i salari sono aumentati, la disoccupazione è stata
sensibilmente ridotta, il futuro immediato promette bene, soprattutto dopo che Orban
ha firmato un importante accordo economico con la Russia, concedendo alla
società Rosaton l’incarico di costruire due nuovi reattori nell’unica centrale
nucleare di Paks e suggellando così una stretta amicizia e collaborazione con
Vladimir Putin, facendo dell’Ungheria il Paese più “filorusso” dell’ex Patto di
Varsavia. Ciò ha attirato al suo leader due contestazioni da parte dell’Ue e la
minaccia di sanzioni finanziarie. Orban ha reagito seccamente: “Noi non
crediamo nell’Unione europea. Noi crediamo nell’Ungheria”. E ha anzi rilanciato
schierandosi con Mosca nelle polemiche riguardanti l’Ucraina.
In questo atteggiamento egli ha
un concorrente da una “piazza” egualmente sorprendente per chi si basa sul
passato: Milos Zeman, che ha addirittura negato che Putin abbia compiuto gesti
di aggressione contro Kiev. Zeman è, va ricordato, il successore di Vaclav
Havel, l’eroe ceco della rivoluzione che nel 1989 trasformò il volto di metà
Europa. La scelta di Zeman non ha mancato di provocare contestazioni, compreso
il lancio di uova che ha accompagnato lo slogan “non vogliamo essere una
colonia russa”.
L’Europa Orientale non ci ha
dunque messo poi troppo a “normalizzarsi” una volta liberata dalle sue catene.
E normalizzarsi vuol dire anche dividersi, farsi concorrenza e muoversi
attraverso i diversi “campi”: gratitudine, zelo e fedeltà “occidentali” e
difesa strenua degli interessi nazionali quando se ne presenti l’occasione. Si
è creato così un “asse” ceco-ungherese, mentre la Romania si è associata al
campo concorrente, che comprende fra l’altro i Paesi Baltici, che sono usciti
non solo da un’alleanza militare e ideologica dominata dal Cremlino ma anche da
un’appartenenza totale all’Unione Sovietica così come, prima, alla Russia
zarista. Le tensioni sono particolarmente frequenti in Lettonia, che ha una
rilevante minoranza etnica russa, che diventa maggioranza nella capitale Riga e
“nutre” un partito che ne è l’espressione e che si chiama eufemisticamente Centro
dell’Armonia. I contrasti etnici spingono Riga e la “gemella” Tallin verso la
massima “fermezza” nei confronti di Mosca.
Uno schieramento di “falchi” che
ha per leader naturale la
Polonia, il Paese che non ha esitato a chiedere la presenza di
armi ed armati americani alla frontiera russa e propugna la massima fermezza nel
contenzioso ucraino. Con qualche recente sfumatura. Il nuovo primo ministro di
Varsavia, Eva Kopacz, ha chiarito fin dal primo giorno che intende cambiare
qualcosa e adottare, anche nella politica estera, un “approccio più femminile”.
Esempio la risposta, il giorno della “presentazione” del nuovo ministero a una
domanda circa le intenzioni o meno di mandare armi al governo ucraino. La
signora Kopacz ha subito messo le mani avanti precisando di non avere
intenzione, comunque, di agire unilateralmente. “La Polonia – ha detto – dovrebbe
comportarsi come una donna polacca ragionevole. Se mi sentissi minacciata da
qualcuno armato di coltello o di pistola, la mia prima reazione sarebbe di
correre in casa e proteggere i miei bambini”.