Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
È stato tutto fuori che una
sorpresa. Si può dire anzi che i veri vincitori delle “elezioni di medio
termine” negli Stati Uniti sono stati gli istituti di sondaggio; come se gli
elettori li avessero ubbiditi. La realtà naturalmente è un’altra: i sondaggisti
hanno fatto bene il loro mestiere, ma soprattutto perché i cittadini americani
interpellati sulle loro intenzioni alle urne hanno parlato in modo chiaro,
univoco e perfino con un certo candore. Si erano dichiarati genericamente ma
recisamente scontenti. Un po’ di tutto: dell’economia buona ma non eccellente, della
posizione internazionale dell’America, della “paralisi delle istituzioni”, del
tono astratto e professorale dei discorsi di Barack Obama e del ritmo impacciato
delle sue realizzazioni. E infine erano preda di un certo disgusto per il
funzionamento delle istituzioni in genere. E arrivati alle urne si sono
espressi di conseguenza, riducendo al minimo quel “riflesso patriottico” che in
altre occasioni aveva indotto i cittadini ad accorrere a sostegno dei
governanti che si trovassero in difficoltà o impaniati nelle loro
contraddizioni. Hanno preferito farle proprie, mostrarsi per quelle che sono
nel mese di novembre 2014, al compimento del sesto anno dopo avere eletto in
Barack Obama il primo presidente di “colore” nella storia nazionale.
Non è la prima volta che una
consultazione elettorale di questo livello, inferiore solo alla scelta
dell’inquilino della Casa Bianca e dunque carica di poteri ma non di visibili responsabilità,
viene usata come occasione per una serie di “no” senza l’obbligo di accoppiarli
a una serie di programmi. Ora sappiamo “ufficialmente” quello che agli
americani non piace. Fra due anni, quando essi saranno chiamati a eleggere il
nuovo presidente, dovranno anche far sapere quale novità vogliono inserire nel governo
e nella vita nazionali.
Per questo il risultato del 4
novembre 2014 è così univoco: è stato l’occasione di sfogare i malumori,
esprimere impazienze, diffidenze, nostalgie, paure. Un vecchio detto distingue
le reazioni di fronte a un bicchiere con del liquido dentro: c’è chi lo chiama
mezzo vuoto e chi mezzo pieno. Quest’anno l’America è giudicata mezza vuota dai
suoi cittadini e dall’“americano medio” che li incarna.
È stato, in sostanza, un voto di
sfiducia: nelle istituzioni in genere, nella classe politica e soprattutto in
quella democratica, nel presidente Obama e forse anche nella presidenza in
genere. Un “salto di malumore” previsto, pianificato e probabilmente fuor di
proporzione con i pur importanti problemi che il Paese è chiamato ad
affrontare. Il paragone meno inaccurato può essere quello con la metà degli
anni Trenta: la Grande Depressione
aveva compiuto sei anni, quattro dei quali spesi nel tentativo di risollevarsi
seguendo le nuove, “rivoluzionarie” dottrine del New Deal, con risultati globalmente
negativi. Quest’anno si era percorsa una strada egualmente lunga dall’inizio
della Grande Recessione e la situazione era ed è, per quanto riguarda
l’economia, incomparabilmente meno grave. Non si è tornati a un boom, ma almeno
a un modesto tran tran invece che a una catastrofe. L’America di Obama non
potrebbe essere descritta nei tragici racconti di Furore o degli altri romanzi di Steinbeck. L’opinione pubblica
registra un malessere, non un morbo e rimprovera al “medico” lentezze, non
esiziali errori. Le poche riforme proposte da Obama, che si possono anche restringere
a quella della sanità, hanno ormai cominciato a funzionare anche se senza
gloria né entusiasmo. La disoccupazione, che ottant’anni fa era un flagello, è
stata riportata a livelli medi, sotto il 6 per cento, meno della metà
dell’Europa. Sono state avviate riforme di costume che a quasi metà degli
americani non piacciono ma a più della metà sì.
Perché allora tanto confermato
malumore? Perché le masse amano dare giudizi semplici, univoci: trionfo o
disastro. Dopo sei anni il bilancio di Obama non è trionfale, è medio o
mediocre. Nutre malumori striscianti, alimenta nostalgie. Soprattutto, forse,
nel campo della politica internazionale: una buona metà degli americani vive
della sensazione che la
Superpotenza non sia più tanto Super: con il travaso del
potere economico dall’Occidente all’Asia, con l’allontanamento di regimi e
Paesi dall’ortodossia dai Washington e di Wall Street, con il terrorismo che
riprende vigore, con il divampare dei sogni torbidi dei vari Califfati. C’è una
sensazione di lento commiato da una Età dell’Oro. E allora si punisce il
nocchiero che forse ha saputo proteggere la nostra vita, ma non i nostri sogni.