Alberto Pasolini Zanelli
Le previsioni erano esatte? No,
erano inferiori alla realtà, disegnavano con cautela eccessiva le intenzioni,
le passioni, la ribellione del popolo greco a sette anni di Austerity e di
sacrifici. Ci si chiedeva se il partito della protesta, Syriza, sarebbe arrivato
davvero in testa scavalcando le forze politiche tradizionali della Grecia, i
socialdemocratici e i conservatori di Nuova Democrazia. Lo si prevedeva, ma ci
si chiedeva se sarebbe bastato per far acquisire ad Alexis Tsipras una
maggioranza per governare. Occorreva, in base alla legge elettorale ellenica,
più saggia che semplice, che il primo partito avesse un margine di almeno il 5
per cento di vantaggio sul secondo, il che gli avrebbe portato cinquanta seggi
come “premio” di maggioranza. In mancanza di questo, sarebbe stato necessario formare
coalizioni. E così sarà: le urne hanno decretato un distacco di oltre 8 punti del
partito di Tsipras rispetto a quello del premier uscente Samaras. Anche se ciò
non equivale ad una maggioranza assoluta: per averla, avrà bisogno di altri due
seggi. Non un compito improbo: trattative sono in corso con gli indipendenti di
Anel (il movimento di destra contrario all’Austerity), che porterebbe un
“tesoretto” di ben tredici deputati.
Era nell’aria, i sondaggi lo
prevedevano, lo indicavano con ancora più chiarezza i toni e la sostanza dei
discorsi della gente, disposta a votare per chiunque sapesse dire no alle
imposizioni di Bruxelles e di Berlino, “no” ad altri sacrifici, “sì” a
qualsiasi cambiamento o tentativo di cambiamento, anche rischioso. Essendo
Syriza un partito di estrema sinistra guidato da un ex comunista, il tramonto
della domenica referendaria di Atene si è tinto di rosso: le piazze festanti
hanno intonato Bella Ciao. Ma ancor
rilevante del “sì” di quaranta greci su cento alle liste di estrema sinistra
(includendo il risultato, in sé mediocre, del Partito comunista) è il “no”
quasi plebiscitario ai candidati, al governo in carica, alla classe dirigente,
“rea” di essersi piegata al Diktat già sette anni fa e di osare oggi di
richiedere alla gente di pagare un ulteriore pedaggio alla causa europea di cui
non si vedono, almeno in Grecia, i vantaggi. L’estrema sinistra sommata agli
altri partiti della protesta di centro o di estrema destra, ha sfiorato i due
terzi dei suffragi, distribuendoli in un arco che va dall’“Alba Dorata”,
emblema di un’estrema destra razzista accusata di neonazismo, al “To Potami”,
il “Fiume” che avrebbe dovuto inondare l’Ellade di idee nuove attraversandone
il Centro. Sepolte sono le vecchie formazioni politiche si sono spartite per
decenni governo e sottogoverno. I conservatori hanno salvato almeno la faccia
con il secondo posto, i socialisti della dinastia Papandreu sono scivolati
addirittura in fondo.
Ma adesso che la Grecia ha scelto, il
protagonista si chiama più che mai
Tsipras e l’argomento sono le sue intenzioni immediate di
governo. Il suo programma non è probabilmente realistico ma certo ha il pregio
di essere chiaro. Si può riassumere in due parole. Quella a uso diplomatico è
“rinegoziare”. Tsipras intende sedersi a un tavolo con i rappresentanti della
Troika e perorare perché essi elaborino una linea alternativa a quella delle
rovinose autosanzioni della Grecia. Sostituire l’austerità fiscale imposta finora
dai creditori esteri con una formula “populista” che allarghi almeno un poco i
cordoni della borsa in modo da far rientrare in limiti accettabili il più alto
tasso di disoccupazione in Europa, invertire una tendenza che si è
concretizzata in un crollo del 25 per cento del Prodotto nazionale lordo, nello
scivolamento di oltre un terzo dei cittadini al di sotto della barriera della
povertà, in decine e decine di migliaia di senzatetto, in una espansione della
miseria paragonabile a quella di un tempo di guerra, a una diminuzione dei
salari di pari passo con l’aumento delle tasse, soprattutto sui consumi, in un
trattamento che Tsipras ha riassunto in un paragone molto ardito con una vecchia
tortura venuta alla luce con le rivelazioni su Guantanamo che va sotto il nome
di “annegamento controllato”.
Questo è il quadro delle riforme
che Tsipras porterà in Parlamento (e non dovrebbe avere troppa difficoltà a
vederle approvate) e che poi dovrà presentare al suo vero interlocutore, alla
sua autentica opposizione che siede in altre aule fra Berlino e Bruxelles e che
già prima del voto ellenico ha preannunciato un proprio sostanziale “no”. No
alla richiesta centrale, che è quella appunto di riscrivere e dunque
rinegoziare il Trattato (ad Atene lo chiamano Diktat) fra la Grecia e le istituzioni
europee, che in questo caso difendono e garantiscono gli interessi dei Paesi
creditori. Da prima ancora che cominciasse la campagna elettorale per queste
elezioni anticipate, le voci intransigenti si erano levate dalla Germania. La
signora Merkel e, ancor più intransigente di lei, il ministro finanziario
Schaeuble, avevano lasciato intendere che le regole non si potevano cambiare.
Se la Grecia non
le trovava più accettabili, nessuno le proibiva di andarsene dall’euro, che
sarebbe andato avanti senza di lei. I più “disponibili” avevano aggiunto, fra
parentesi e a bassa voce, l’ipotesi che anche la Grecia, forse, avrebbe
potuto tirare avanti senza euro.