Alessandro Petti
E’ impossibile in questi giorni parlare e scrivere di altro,
rispetto all’attacco che - dopo quelli che furono portati nel 2001 agli Stati
Uniti con le stragi delle Torri Gemelle di New York e nel 2007 alla
metropolitana di Londra - è stato oggi nuovamente portato all’Europa con gli
attentati di Parigi.
E solo ora ci accorgiamo che i bei giardini e i fragili
steccati che abbiamo creato intorno a noi, a nulla servono se non a illuderci
di una sicurezza e di un benessere che sono invece solo apparenti. Un
sentimento che, oltre duemila anni fa, Lucrezio aveva così mirabilmente
descritto (nel ‘De rerum natura’): “E’ dolce, quando sul vasto mare i venti
turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia
un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu
stesso sia privo”.
Solo ora ci accorgiamo che per le nostre guerre lontane (in
Medioriente, in Africa, in Afghanistan) possiamo morire qui a casa e che
conflitti esportati e dislocati altrove possono ‘rimpatriare’: perché tutti i
problemi cui non sappiamo o non vogliamo dare soluzione, alla fine, ci tornano
addosso.
Ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo
combattendo non avrebbero mai potuto colpirci e invece è accaduto ed ora è
subentrata la paura.
Non è solo però la nostra paura, ma anche quella di altre
vittime simboliche delle stragi di Parigi, i musulmani di Francia: “Presi tra
due fuochi – ha detto lo scrittore Daniel Pennac, intervistato da Repubblica in
quei giorni -, da un lato, ci sono gli assassini che pretendono di parlare in
loro nome; dall’altro un’opinione pubblica che chiede loro di dimostrare
continuamente di essere diversi e lontani dagli assassini. Per i musulmani è
una situazione molto difficile. Se i terroristi incarnano una malattia mortale,
anche l’estrema destra è una malattia mortale”.
Sono entrambi, vorrei
aggiungere, integralismi, fondamentalismi, fanatismi: perchè si arrogano il
‘diritto’ di interpretare e farci, con la forza, interpretare la realtà come
vogliono loro.
Pennac ha colto uno dei nodi fondamentali di questi tragici
eventi: una cosa è l’organismo, un’altra cosa sono le malattie che vi possono insorgere,
come il terrorismo, come la mafia: diversamente da così sarebbe come dire che
tutti i musulmani sono terroristi e che tutti i cristiani sono mafiosi (un’altra
malattia mortale del nostro tempo).
Detto questo, non possiamo non constatare - fuori da ogni
inappropriato relativismo culturale (che è cosa diversa dal rispetto delle
culture ‘altre,’ diverse dalla nostra) - l’estremo conservatorismo e un’arretratezza
del mondo dell’Islam rispetto ad una
serie di diritti fondamentali dell’uomo (e della donna) conquistati in
Occidente.
Tra le tante voci di intervistati dalle televisioni in
quegli stessi giorni, vorrei riportare la voce dello scrittore e regista afgano
Atiq Rahimi (che risiede a Parigi): “A partire dal 18° secolo il mondo islamico
si è ripiegato su se stesso, perdendo il contatto con la modernità. Si è arroccato
in difesa, sentendosi umiliato ed emarginato per non aver saputo seguire
l’evoluzione della storia. Per giustificare tale condizione, si è trincerato
dietro la religione, di cui ha abbracciato la versione più intransigente e
tradizionalista”.
Ciò laddove, è bene sottolineare, una delle maggiori
conquiste del nostro pensiero e della democrazia occidentale è stata proprio la
separazione tra religione e politica (ad eccezione, sembra, di alcuni casi
anomali tra i quali, qui da noi, quello rappresentato da Formigoni…).
Insomma, la religione così interpretata e la jiad diventano, per questi ‘malati’, un
modo per giustificare l’odio e dare un senso alla loro vita: da criminali quali
erano finiscono per sentirsi degli eroi, con sprezzo della vita.
E qui sta un altro dei nodi fondamentali del problema. Il
terrorismo ci vuole colpire - dopo secoli di guerre spietate e a cento e
settanta anni rispettivamente dalle ultime due brutali guerre mondiali che
hanno devastato l’Europa – nel momento in cui eravamo riusciti a superare
queste barbarie e ‘pulsioni primarie’: per riportarci, dopo la conquista del
dialogo (e della ‘parola’), di nuovo indietro, al conflitto (e al ‘colpo’).
Di fronte a tutto ciò, il grande scrittore israeliano David
Grossman – che nella mia Università ho avuto l’enorme piacere di incontrare
- ha detto: “Ci aspettiamo di sentire
forte e chiara la voce dei musulmani moderati, razionali e aperti al dialogo”.
A queste parole Grossman ha fatto seguire, insieme ad altri
due grandi scrittori israeliani, Yehoshua e Oz, un atto, la firma di una
petizione ai Parlamenti europei perché riconoscano lo Stato Palestinese: “… affinchè
– vi è scritto - questo riconoscimento, reciproco, faccia avanzare le
prospettive di pace e incoraggi israeliani e palestinesi a porre fine al
conflitto”.
Affinchè, aggiungo di mio, si ponga fine anche a quell’enorme
vergognoso campo di concentramento a cielo aperto (ancor più oggi, dopo la distruzione
di una grande parte delle sue case) che è Gaza.
Non vorrei mai, infatti, trovare scritto su un cartello
esibito da uno dei suoi abitanti: “Je suis Gaza”.
Alessandro Petti
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