Alberto Pasolini Zanelli
Mobilitazione generale, ma non
soltanto per le guerre del secolo scorso che sono ricominciate nel Medio
Oriente e che potrebbero perfino ricominciare domattina in Europa. Ciò che
occupa e preoccupa le menti di chi sa guardare lontano e lontano temere è la
guerra che potrebbe occupare le menti e i cuori dei nostri nipoti, se noi non
troviamo il tempo e il coraggio di prevenirle oggi. Qualche avamposto vi è già
impegnato. Sono naturalmente i droni che balzano sui bersagli mobili nei deserti
dell’Arabia o dell’Africa settentrionale, manovrati da uomini o donne in abito
borghese in uffici a diecimila chilometri di distanza. A volte sbagliano e ci
sono ancora, per fortuna, statisti che almeno sanno scusarsi per questi errori.
Ma sono dettagli: alla guerra che ci fa, o dovrebbe farci, paura volgono il
pensiero menti rivolte ad altri, più lontani “bersagli”. Non ci parlano dagli
Stati Maggiori ma da centri studi e cattedre. Per esempio da Jeffrey Sachs,
dalla Columbia University. Avverte che le “macchine intelligenti” non sanno
solo uccidere terroristi ma, in una generazione o due, “portarci miseria per
tutti”, distruggendo non per ordine di generali o presidenti, milioni di posti
di lavoro in tutto il mondo.
Altri studiosi, in questo caso ricercatori
britannici, scendono nei dettagli. Hanno dedicato uno studio alla
“computerizzazione”, cioè automazione dei posti di lavoro tramite computer, in
settecento professioni negli Stati Uniti e concluso che il rischio è il 47 per
cento dei jobs entro uno o due
decenni. Altri hanno fatto lo stesso calcolo per la Francia e sono arrivati a
prevedere la distruzione di tre milioni di posti di lavoro entro dieci anni,
percentuale il 42 per cento. Il settore più immediatamente minacciato è quello
automobilistico. La concorrenza del sistema Huber ai taxi non è che un antipasto
benigno. Le “auto senza pilota” potranno conquistare fra breve l’intero
mercato: nessuno le comprerà più, si limiteranno a prenderle in affitto.
L’industria automobilistica rischia di scomparire e con essa tutti i suoi
“satelliti” dai controllori dei parcheggi, alle assicurazioni auto.
È solo il primo degli esempi,
figlio di un fenomeno già in corso sotto i nostri occhi, anche se i più
continuano a concepirlo in termini e tempi da fantascienza. Non sono cose da
Marte fra un secolo, ma da noi, sulla Terra, forse fra qualche anno. “È un
pericolo più grande – hanno ammonito tre famosi scienziati – di una guerra
nucleare. Si chiama “piena intelligenza artificiale”. Che potrebbe, ammonisce
Stephen Hawking – portare la fine della razza umana”. Non la pensa troppo
diversamente neppure un uomo con i piedi ben saldi nel presente e nel futuro,
Bill Gates, fondatore di Microsoft. E con lui diversi imprenditori d’avanguardia
della Silicon Valley. Altri, altrettanto famosi, avevano suonato la sirena
d’allarme anche prima. Quasi un secolo fa John Mainard Keynes ammonì nel 1930
del rischio che “l’emergenza delle nuove macchine potrà creare presto una
disoccupazione tecnologica”. Se ne erano accorti anche prima di lui persone
tutt’altro che famose, dagli operai tessili della Slesia cui le primitive
“automazioni” della prima Rivoluzione Industriale avevano portato via il
lavoro. Nacque in tutta Europa un movimento che prese il nome dal suo non
illustre leader, Ned Ludd, “luddismo”. Eravamo nell’infanzia di questo sviluppo.
Ora emergono macchine sempre nuove, sempre più “colte”, comunque più potenti,
terribilmente efficaci e soprattutto sempre meno care. La concorrenza è già in
corso, secondo esperti potranno perdere il posto dei lavoratori di tutta la Terra, compresi i cinesi
oggi così a buon mercato.
Come si può fermare questa
“Invencibile Armada”? Le “soluzioni” proposte sono varie, alcune moderne quanto
il problema e la minaccia, altre radicate in un passato senza successo. Per
esempio in un Paese in cui metà degli abitanti perdessero il lavoro si potrebbe
tentare una soluzione già proposta da qualche politico anche in Italia, il
“salario di cittadinanza”, che toglierebbe al lavoro il suo ruolo essenziale da
sempre e reintrodurrebbe forme di comunismo.
E neppure sarebbero le soluzioni
più drastiche. Per trovarle bisogna risalire molto di più nella storia. Tornare
indietro di quattro secoli e mezzo. Rivisitare un inventore inglese di nome
William Lee, che si fece ricevere dalla regina Elisabetta I e le presentò la
sua macchina capace di fare la calza e le promise un grande aumento di
produttività. La sovrana non si lasciò convincere, anzi gli fece notare che la
sua invenzione avrebbe portato alla rovina ai suoi sudditi privandoli del ruolo
e dunque del salario. Elisabetta proibì questa macchina. Lee cercò di
introdurla in Francia. Un suo socio preferì rimanere a Londra e insistere sul
progetto. La regina lo fece arrestare, processare, condannare per “alto
tradimento” e mandare al patibolo. Gli tagliarono la testa. Era in anticipo sui
tempi. Non avevano ancora inventato la ghigliottina.