Alberto
Pasolini Zanelli
Vincitori e vinti al termine di una
campagna elettorale che non merita, dopotutto, il termine di “battaglia”. Di
vincitori ce ne sono due, prima di tutto geografici ma per il resto
contrapposti: separati da un vero e proprio confine interno destinato forse a
diventare un giorno confine e basta. Sul piano personale di vincitori ce n’è
uno solo, David Cameron, che ha conquistato la maggioranza assoluta,
guadagnando in voti e in seggi, seppellendo le angosce e i sondaggi,
riaffermando il potere, politico e psicologico, dell’espressione Gran Bretagna.
Continuerà a governare lui, libero anche della in realtà esile ipoteca, che per
questi ultimi anni è stata costituita dal Partito liberale. L’unica ipoteca
rimastagli addosso è la promessa di un referendum entro due anni sui rapporti
fra la Gran Bretagna e l’Europa. È una promessa fatta agli antieuropeisti,
evidentemente delle “dimensioni” giuste per recuperare gran parte dei loro voti
che si erano rifugiati, in occasione delle recenti votazioni per il Parlamento
di Strasburgo, nel partito della protesta, dal nome sonante di Ukip, Partito
per l’Indipendenza del Regno Unito. Indipendenza dall’Europa che aveva portato il
suo fondatore, il semisconosciuto Nicolas Farage addirittura al primo posto con
il 30 per cento dei voti, scesi ora a poco più di quota 12: gli altri sono
tornati a casa dei conservatori. Cameron era dato dai più per sconfitto o
comunque molto indebolito: ha rovesciato i pronostici con una campagna basata
su un risultato e una promessa. Il risultato è quello economico: la Gran
Bretagna è cresciuta negli anni in cui i suoi quasi tutti i suoi “consoci” sul
Continente hanno conosciuto e ancora attraversano le angosce della crisi.
Cameron ha evitato certi errori, ha fatto calare la disoccupazione: è stato
aiutato soprattutto dal fatto di non avere le mani legate dalle virtuose
manette dell’euro e dalle rigidità merkeliane. Se sulle Bianche Scogliere di
Dover veglia una santa patrona, il suo nome è ancora Margaret (come Thatcher) e
non Angela. Si ferma qui, e non è poco, il paragone fra i due premier
conservatori. La Thatcher vinceva portando sfide e proponendo innovazioni,
Cameron ha sempre prediletto la prudenza e l’appello alla paura. Però ha vinto,
ha guadagnato tempo sul problema Europa, ha rastrellato i voti degli “anti” li
ha sommati ai concittadini che badano soprattutto al portafoglio e ha decimato
i suoi concorrenti e soprattutto i suoi alleati. I liberali, partner obbligati
di coalizione del governo uscente e unico partito davvero europeista in Gran
Bretagna, rasentano adesso quota zero. Cameron non ha più bisogno di loro, il
segretario Nick Clegg si è dimesso.
La stessa sorte è toccata al leader
dell’opposizione, quell’Ed Miliband generalmente definito come “debole” ma che
i sondaggi fino addirittura a metà del giorno delle elezioni consideravano il
probabile vincitore. Hanno abbandonato i laburisti una parte dell’elettorato
operaio, tutto sommato soddisfatta e più quieta anche sul tema
dell’immigrazione. La Gran Bretagna, anzi l’Inghilterra, si sta abituando alla
sua “multinazionalità”: è stato eletto il primo deputato di origine cinese,
“scortato” da tre oriundi del Bangladesh, uno dei quali, una donna, nipote del
primo ministro di quel Paese negli anni Settanta. Una città industriale del
Nord un sindaco italiano, di origine pugliese e un corpo elettorale in gran
parte polacco.
Tutto questo riguarda, più che la Gran
Bretagna, l’Inghilterra. A Nord del Vallo di Adriano il discorso è tutto
diverso. I britannici non vogliono proprio andarsene dall’Europa, gli scozzesi
sono più che mai decisi ad andarsene dalla Gran Bretagna: dei 59 seggi in palio
in Scozia, il Partito nazionalista se ne è presi 56. Un plebiscito che
capovolge i dati del referendum di meno di un anno fa in cui prevalsero, sia
pure non plebiscitariamente, i partigiani dell’Unione. Il loro recupero è
avvenuto a spese totali dei laburisti, i grandi sconfitti, che hanno perso voti
a destra in Inghilterra e in Scozia sono stati contemporaneamente salassati
anche verso sinistra dalla campagna populista dei nazionalisti. Una serie di
travasi di voto alquanto complicata, effettuata anche attraverso canali
“sotterranei”. Una conferma del fatto che il sistema del collegio uninominale
non garantisce la purezza di una logica aritmetica, soprattutto quando in gara
sono più di due. È già accaduto che il partito con meno voti conquistasse più
seggi e il potere. Ma non è il caso di David Cameron, che sul filo di lana ha
“bruciato” tutti, in voti e in seggi. E anche di Ed Miliband che si è
“bruciato” un’occasione che non solo lui considerava d’oro.
Pasolini.zanelli@gmail.com