(Pubblichiamo con piacere questo studio dell'amico Ambasciatore Ferdinando Salleo)
Dopo la guerra
dei neocons, lanciata con l’obiettivo
astratto di “democratizzare il Grande Medio Oriente” a partire dall’Iraq, sopito
via via che fu l’entusiasmo dell’Occidente per le “primavere arabe” e per la
spinta spontanea alla modernizzazione che animava i giovani di Piazza Tahrir echeggiando
la rivoluzione liberale del Quarantotto europeo o addirittura le parole
d’ordine dell’Ottantanove francese, sono sopraggiunti a prendere il potere i movimenti
islamisti e i regimi autoritari. Non siamo arrivati a rimpiangere i governi
dittatoriali abbattuti dalle “primavere”, ma il diffuso disordine e la frammentazione
in cui prospera l’estremismo jihadista ci fanno ripercorrere realisticamente un
passato di relativa stabilità, o almeno di minor rischio sistemico. Eravamo forse
coscienti della contraddizione tra i valori di libertà, i diritti umani e
civili che proclamavamo e l’appoggio contemporaneo fornito ai regimi dittatoriali
che garantivano la stabilità regionale e un certo livello di tregua per Israele
mantenendo l’ordine domestico e tenendo a freno con ogni mezzo i movimenti islamisti
all’interno. Siamo divenuti poco per volta consapevoli anche della perdita di
una componente importante del nostro soft
power su cui fondavamo le speranze dell’evoluzione regionale.
Tant’è, la
Realpolitik e la ragion di Stato hanno reclamato il tradizionale storico
prezzo. Nell’approccio politico americano, dopo l’esperienza di due guerre
perdute in terra islamica, la strategia definita sommariamente dalla Casa
Bianca lead from behind sembra ora
prevalere nell’urgenza dell’intesa cui si guarda per raggiungerla senza
guardare tanto per il sottile, basata in fondo su quei governi locali che siano
in grado di partecipare efficacemente alla priorità della lotta contro i
terroristi: l’Egitto di Al-Sisi ne è un esempio evidente, ma non il solo. Si coltivano,
infatti, rapporti con le ambigue recalcitranti monarchie totalitarie del Golfo,
se non altro per contrastare gli jihadisti e arrestare i finanziamenti
indiretti che quelli ricevono anche dai regimi che fanno mostra di lottare
contro il terrorismo. La Turchia neo-ottomana e il Qatar, l’Arabia Saudita wahabita
che teme le ambizioni egemoniche dell’Iran e gli Emirati si contendono il
teatro degli inganni.
In questo
senso, pur con ogni distinguo, l’apertura di John Kerry a Bashar al Assad
sottende ormai un appello a unire tutte le forze e segnala un cauto cambiamento
di Washington nella strategia contro ISIS e l’estremismo islamico. Accantonato
il régime change della dottrina bushiana,
visto ormai come un obiettivo lontano piuttosto che uno scopo politico, come un
processo che, con un approccio storicistico quasi hegeliano, si spera possa
realizzarsi da sé con il tempo che le trasformazioni sociali e politico-culturali
consentano. Una visione che, formata attorno alla dichiarata priorità asiatica della
strategia di Barack Obama (pivot to the
Pacific) e alle conseguenze della rivoluzione in corso nei prezzi dell’energia,
pone l’accento sulla posizione di relativo distacco di Washington dallo
scacchiere mediterraneo e medio-orientale e, forse, non riguarda solo il
Mediterraneo e il Medio Oriente, dove la riconfigurazione geopolitica richiede
un’intesa tra i protagonisti.
Ritorna centrale,
quindi, il ruolo dei governi arabi per fronteggiare il terrorismo aggressivo e
spesso inafferrabile delle varie formazioni estremiste collocate nel territorio
nullius degli “Stati falliti”, in primis l’aggressione del “califfato” che
minaccia anzitutto nell’immediato gli antichi regimi arabi al potere, più che
gli europei e gli americani. Il prezzo politico per noi occidentali comporta in
ogni caso non pochi compromessi, il ritorno a un più elevato livello di tolleranza
per le condizioni in cui versano le popolazioni sottoposte a quei regimi e per
il martirio di Aleppo, per le atroci repressioni di Assad, per l’impiego dei
gas tossici in Siria contro le popolazioni civili – che aveva sollecitato un
fermo monito di Obama rimasto senza seguito - ma anche per la fornitura da parte
occidentale di aiuti militari destinati a rafforzare i mezzi d’intervento
esterno dei regimi autoritari, strumenti tuttavia non tutti neutrali rispetto
all’ordine domestico: come reagirà l’opinione pubblica occidentale dinanzi a
questi tragici dilemmi, esposta com’è ogni giorno alla visione delle
incongruenze nostre e delle atrocità della guerra civile generale?
Sembra ritornare
attuale nel quadro medio-orientale e mediterraneo il divieto d’ingerenza negli
affari interni degli Stati, l’antica sovranità Westfaliana che aveva posto fine
nel XVII secolo a decenni di guerre sanguinarie e aveva assicurato all’Europa,
sulle ceneri delle libertà tedesche, una ragionevole stabilità per un secolo e
mezzo. Una dottrina che, del resto, figura persino nella Carta delle Nazioni
Unite[1] anche
se ha trovato limiti e controversie nelle dottrine giuridico-politiche
dell’intervento umanitario e della “responsabilità di protezione” nei confronti
dei governi che si macchiano di crimini contro l’umanità verso altri popoli o verso
i propri cittadini. Torna, quasi invisibile, la diplomazia del Congresso di
Vienna, forse di quello di Berlino, che si fondavano, però, su un effettivo
“concerto delle potenze”, condiviso ed efficace.
Il ritorno a
Westfalia che si avverte ormai, sottinteso nei comportamenti, anche se non
proclamato come linea politica, sarà limitato alla lotta al terrorismo o
diverrà invece un paradigma diffuso? Viene, infatti, da chiedersi se la
filosofia politica Westfaliana possa prender corpo anche nelle regioni più
lontane, se non finisca per definirsi come metodologia strategica persino in
quelle controversie che si configurano già abbastanza apertamente nella
geopolitica della grande area dell’Asia-Pacifico dove Pechino contesta al
Giappone gli scogli Senkaku-Diaoyu, crea una possente banca asiatica di
sviluppo per le infrastrutture cui prontamente si associano le potenze
occidentali guidate da Londra malgrado i moniti della diplomazia americana che
vede con preoccupazione l’affievolirsi del Washington
consensus che aveva retto la politica economica e finanziaria
internazionale sin dalla creazione delle Istituzioni di Bretton Woods. Pechino
avanza verso Occidente: ha appena annunciato un colossale prestito al Pakistan
per tracciare una nuova “via della seta” che colleghi la Cina addirittura al
Mediterraneo e assicuri una sorta di area di influenza condivisa nelle satrapie
dell’Asia Centrale. Ha infine ha attirato Mosca in un improbabile patto gasiero
ventennale che la Russia non potrà finanziare e concretamente sostenere con i
mezzi propri mentre l’Unione Euroasiatica con cui il Cremlino mira a riprodurre
con moduli diversi lo spazio geopolitico dell’URSS boccheggia asfittica. Il pivot to Asia – impostato da Putin or
sono vari anni su vari scacchieri compresa un’alleanza che non decolla - ha una
dimensione geopolitica antica e prepotente, ma ha suscitato un antemurale in
cui la Cina ha ben più carte da giocare con la consueta sorniona diplomazia,
economica, politica ed oggi anche militare.
Westfalia si
espande? È pensabile che l’antica filosofia della sovranità degli Stati possa
modernizzarsi per tracimare oltre la regione mediterranea e medio-orientale e
divenire dottrina accettata e praticata? Se lo chiedeva in fondo pochi giorni
fa a Stanford lo storico americano Francis Fukuyama, autore di un fortunato
libro in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione
Sovietica, aveva proclamato “la fine della Storia” e, crollati i totalitarismi,
la prevalenza globale di una società libera e democratica[2]. In
un’analisi fondamentalmente revisionista, Fukuyama accetta adesso
implicitamente la diversificazione dei moduli strategico-culturali della politica
internazionale delle maggiori potenze, la complessa interazione tra la
globalizzazione, le sue conseguenze di porosità delle frontiere e di diffusa
comunicazione, da un lato, e la contemporanea frammentazione dello scenario
mondiale, dall’altro, in cui ciascuna crisi sembra quasi autoreferenziale. In quest’ottica
Fukuyama poneva con me l’accento sulla considerazione che la distruzione del
“califfato” è realistica e attuabile nel Medio Oriente facendo valere l’esigenza
dell’impiego di alleanze locali più o meno coese, di strumenti militari e
politici coordinati e, insieme, di un’azione politico-strategica con valenza
principalmente regionale che si basi sul coinvolgimento dei principali attori,
non ultimo l’Iran post-nucleare, in vista della lenta riconfigurazione
geostrategica della regione.
Al contrario, per
lo storico americano ben altro scenario ed altri rischi si presentano in Europa
Centrale dopo la crisi ucraina, l’annessione della Crimea e la pressione sul
Donbass, una “guerra negata” e condotta per procura, senza contare quanto già
mostrano gli scontri asimmetrici in Transnistria e Georgia, la corte attiva
fatta alla Grecia e all’Ungheria, un teatro dove gli azzardi del disegno
putiniano di revanscismo si inscrivono in una visione di restaurazione,
ispirata dalla retorica geopolitica del passato e sorretta dagli investimenti
nelle forze armate convenzionali. Il vagheggiamento dell’antico bipolarismo
americano-sovietico, la narrativa nazionalista e la propaganda aggregano la
popolarità del Cremlino nonostante le difficoltà economiche e finanziarie, le
sanzioni e il crollo del rublo, le crescenti diseguaglianze sociali e
demografiche. Nella Russia governata dalla “verticale del potere”, dal
controllo statale della comunicazione e dal capitalismo oligarchico che fa capo
al Cremlino la politica estera sembra in questa fase far premio sull’assetto
interno, ma nell’immenso asimmetrico impero un processo di stabilizzazione
sembra configurarsi con la lentezza dei movimenti tettonici.
Il tintinnio dei
missili a testata nucleare agitati all’indirizzo dei vicini, scandinavi e
nordici, soprattutto riferiti all’installazione di sistemi anti-missile e
batterie radar della NATO, le incursioni dei caccia russi che lambiscono lo
spazio aereo della regione suonano sinistramente e richiedono appropriate
misure, mantengono elevata la tensione e rammentano quasi quotidianamente la
fragilità delle intese di Minsk per l’Ucraina. Tuttavia, a fronte delle
avventure alle frontiere occidentali cui si guarda con diversa sensibilità, la
fragilità del suo scacchiere asiatico non può sfuggire. La Russia resta uno dei
principali attori della politica mondiale, nonostante le sue perduranti
fragilità e il declino economico e demografico, potenza nucleare con valenza
strategica, consapevole della sua specificità storica e culturale e del suo
peso politico, consapevole d’essere necessaria componente anche di una
soluzione del groviglio medio-orientale. Il dialogo con Putin è certo assai
difficile e richiede l’arduo stabilimento di un accettabile livello di
verificabile fiducia. Richiede quindi un notevole sforzo di visione politica e
di coesione da parte occidentale, di diplomazia attiva europea e soprattutto americana,
in vista dello stabilimento di un concerto delle maggiori potenze. Chissà che
un venticello Westfaliano non possa spirare anche tra i protagonisti della
stabilità mondiale e fornire loro l’ispirazione per un dialogo che sin qui è
stato fragile, frazionato e indiretto.
Ferdinando Salleo
CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI LETTERA
DIPLOMATICA
PALAZZETTO
VENEZIA n. 1122 – Anno MMXV
Via degli Astalli, 3/A – 00186 Roma Roma, 12 maggio 2015
Tel. 06.679.10.52