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Westfalia redux?



(Pubblichiamo con piacere questo studio dell'amico Ambasciatore Ferdinando Salleo)
                                                                    
L’eccidio del Bardo, in Tunisia, la terra dove le “primavere arabe” avevano trovato un assetto stabile e una speranza di democrazia, la guerra civile e le stragi in Yemen, l’assillante barbaro assedio estremista di ISIS con l’ossessiva potenza mediatica che genera, la transumanza attraverso il mare verso l’Europa esitante, esaltano drammaticamente l’urgenza della sicurezza in Mediterraneo e in Medio Oriente mostrando insieme nuovi allineamenti trasversali che vanno formandosi nella lotta al terrorismo. Nel vuoto di potere in Libia, tra governi rivali e bande armate tribali, la guerra civile è un focolaio d’infezione diffusa in cui le fazioni e le due capitali contrapposte stentano a diventare interlocutori dell’ardua azione politica di Bernardino León. Nell’Iraq disintegrato, a combattere ISIS sono le milizie sciite e quelle iraniane che le inquadrano e organizzano con l’appoggio a distanza del “grande Satana” americano mentre i peshmerga curdi, l’incubo dei nostri alleati turchi, tengono per quanto possibile la loro regione e intervengono in Siria.
Dopo la guerra dei neocons, lanciata con l’obiettivo astratto di “democratizzare il Grande Medio Oriente” a partire dall’Iraq, sopito via via che fu l’entusiasmo dell’Occidente per le “primavere arabe” e per la spinta spontanea alla modernizzazione che animava i giovani di Piazza Tahrir echeggiando la rivoluzione liberale del Quarantotto europeo o addirittura le parole d’ordine dell’Ottantanove francese, sono sopraggiunti a prendere il potere i movimenti islamisti e i regimi autoritari. Non siamo arrivati a rimpiangere i governi dittatoriali abbattuti dalle “primavere”, ma il diffuso disordine e la frammentazione in cui prospera l’estremismo jihadista ci fanno ripercorrere realisticamente un passato di relativa stabilità, o almeno di minor rischio sistemico. Eravamo forse coscienti della contraddizione tra i valori di libertà, i diritti umani e civili che proclamavamo e l’appoggio contemporaneo fornito ai regimi dittatoriali che garantivano la stabilità regionale e un certo livello di tregua per Israele mantenendo l’ordine domestico e tenendo a freno con ogni mezzo i movimenti islamisti all’interno. Siamo divenuti poco per volta consapevoli anche della perdita di una componente importante del nostro soft power su cui fondavamo le speranze dell’evoluzione regionale.
Tant’è, la Realpolitik e la ragion di Stato hanno reclamato il tradizionale storico prezzo. Nell’approccio politico americano, dopo l’esperienza di due guerre perdute in terra islamica, la strategia definita sommariamente dalla Casa Bianca lead from behind sembra ora prevalere nell’urgenza dell’intesa cui si guarda per raggiungerla senza guardare tanto per il sottile, basata in fondo su quei governi locali che siano in grado di partecipare efficacemente alla priorità della lotta contro i terroristi: l’Egitto di Al-Sisi ne è un esempio evidente, ma non il solo. Si coltivano, infatti, rapporti con le ambigue recalcitranti monarchie totalitarie del Golfo, se non altro per contrastare gli jihadisti e arrestare i finanziamenti indiretti che quelli ricevono anche dai regimi che fanno mostra di lottare contro il terrorismo. La Turchia neo-ottomana e il Qatar, l’Arabia Saudita wahabita che teme le ambizioni egemoniche dell’Iran e gli Emirati si contendono il teatro degli inganni.
In questo senso, pur con ogni distinguo, l’apertura di John Kerry a Bashar al Assad sottende ormai un appello a unire tutte le forze e segnala un cauto cambiamento di Washington nella strategia contro ISIS e l’estremismo islamico. Accantonato il régime change della dottrina bushiana, visto ormai come un obiettivo lontano piuttosto che uno scopo politico, come un processo che, con un approccio storicistico quasi hegeliano, si spera possa realizzarsi da sé con il tempo che le trasformazioni sociali e politico-culturali consentano. Una visione che, formata attorno alla dichiarata priorità asiatica della strategia di Barack Obama (pivot to the Pacific) e alle conseguenze della rivoluzione in corso nei prezzi dell’energia, pone l’accento sulla posizione di relativo distacco di Washington dallo scacchiere mediterraneo e medio-orientale e, forse, non riguarda solo il Mediterraneo e il Medio Oriente, dove la riconfigurazione geopolitica richiede un’intesa tra i protagonisti.
Ritorna centrale, quindi, il ruolo dei governi arabi per fronteggiare il terrorismo aggressivo e spesso inafferrabile delle varie formazioni estremiste collocate nel territorio nullius degli “Stati falliti”, in primis l’aggressione del “califfato” che minaccia anzitutto nell’immediato gli antichi regimi arabi al potere, più che gli europei e gli americani. Il prezzo politico per noi occidentali comporta in ogni caso non pochi compromessi, il ritorno a un più elevato livello di tolleranza per le condizioni in cui versano le popolazioni sottoposte a quei regimi e per il martirio di Aleppo, per le atroci repressioni di Assad, per l’impiego dei gas tossici in Siria contro le popolazioni civili – che aveva sollecitato un fermo monito di Obama rimasto senza seguito - ma anche per la fornitura da parte occidentale di aiuti militari destinati a rafforzare i mezzi d’intervento esterno dei regimi autoritari, strumenti tuttavia non tutti neutrali rispetto all’ordine domestico: come reagirà l’opinione pubblica occidentale dinanzi a questi tragici dilemmi, esposta com’è ogni giorno alla visione delle incongruenze nostre e delle atrocità della guerra civile generale?
Sembra ritornare attuale nel quadro medio-orientale e mediterraneo il divieto d’ingerenza negli affari interni degli Stati, l’antica sovranità Westfaliana che aveva posto fine nel XVII secolo a decenni di guerre sanguinarie e aveva assicurato all’Europa, sulle ceneri delle libertà tedesche, una ragionevole stabilità per un secolo e mezzo. Una dottrina che, del resto, figura persino nella Carta delle Nazioni Unite[1] anche se ha trovato limiti e controversie nelle dottrine giuridico-politiche dell’intervento umanitario e della “responsabilità di protezione” nei confronti dei governi che si macchiano di crimini contro l’umanità verso altri popoli o verso i propri cittadini. Torna, quasi invisibile, la diplomazia del Congresso di Vienna, forse di quello di Berlino, che si fondavano, però, su un effettivo “concerto delle potenze”, condiviso ed efficace.
Il ritorno a Westfalia che si avverte ormai, sottinteso nei comportamenti, anche se non proclamato come linea politica, sarà limitato alla lotta al terrorismo o diverrà invece un paradigma diffuso? Viene, infatti, da chiedersi se la filosofia politica Westfaliana possa prender corpo anche nelle regioni più lontane, se non finisca per definirsi come metodologia strategica persino in quelle controversie che si configurano già abbastanza apertamente nella geopolitica della grande area dell’Asia-Pacifico dove Pechino contesta al Giappone gli scogli Senkaku-Diaoyu, crea una possente banca asiatica di sviluppo per le infrastrutture cui prontamente si associano le potenze occidentali guidate da Londra malgrado i moniti della diplomazia americana che vede con preoccupazione l’affievolirsi del Washington consensus che aveva retto la politica economica e finanziaria internazionale sin dalla creazione delle Istituzioni di Bretton Woods. Pechino avanza verso Occidente: ha appena annunciato un colossale prestito al Pakistan per tracciare una nuova “via della seta” che colleghi la Cina addirittura al Mediterraneo e assicuri una sorta di area di influenza condivisa nelle satrapie dell’Asia Centrale. Ha infine ha attirato Mosca in un improbabile patto gasiero ventennale che la Russia non potrà finanziare e concretamente sostenere con i mezzi propri mentre l’Unione Euroasiatica con cui il Cremlino mira a riprodurre con moduli diversi lo spazio geopolitico dell’URSS boccheggia asfittica. Il pivot to Asia – impostato da Putin or sono vari anni su vari scacchieri compresa un’alleanza che non decolla - ha una dimensione geopolitica antica e prepotente, ma ha suscitato un antemurale in cui la Cina ha ben più carte da giocare con la consueta sorniona diplomazia, economica, politica ed oggi anche militare.
Westfalia si espande? È pensabile che l’antica filosofia della sovranità degli Stati possa modernizzarsi per tracimare oltre la regione mediterranea e medio-orientale e divenire dottrina accettata e praticata? Se lo chiedeva in fondo pochi giorni fa a Stanford lo storico americano Francis Fukuyama, autore di un fortunato libro in cui, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, aveva proclamato “la fine della Storia” e, crollati i totalitarismi, la prevalenza globale di una società libera e democratica[2]. In un’analisi fondamentalmente revisionista, Fukuyama accetta adesso implicitamente la diversificazione dei moduli strategico-culturali della politica internazionale delle maggiori potenze, la complessa interazione tra la globalizzazione, le sue conseguenze di porosità delle frontiere e di diffusa comunicazione, da un lato, e la contemporanea frammentazione dello scenario mondiale, dall’altro, in cui ciascuna crisi sembra quasi autoreferenziale. In quest’ottica Fukuyama poneva con me l’accento sulla considerazione che la distruzione del “califfato” è realistica e attuabile nel Medio Oriente facendo valere l’esigenza dell’impiego di alleanze locali più o meno coese, di strumenti militari e politici coordinati e, insieme, di un’azione politico-strategica con valenza principalmente regionale che si basi sul coinvolgimento dei principali attori, non ultimo l’Iran post-nucleare, in vista della lenta riconfigurazione geostrategica della regione.
Al contrario, per lo storico americano ben altro scenario ed altri rischi si presentano in Europa Centrale dopo la crisi ucraina, l’annessione della Crimea e la pressione sul Donbass, una “guerra negata” e condotta per procura, senza contare quanto già mostrano gli scontri asimmetrici in Transnistria e Georgia, la corte attiva fatta alla Grecia e all’Ungheria, un teatro dove gli azzardi del disegno putiniano di revanscismo si inscrivono in una visione di restaurazione, ispirata dalla retorica geopolitica del passato e sorretta dagli investimenti nelle forze armate convenzionali. Il vagheggiamento dell’antico bipolarismo americano-sovietico, la narrativa nazionalista e la propaganda aggregano la popolarità del Cremlino nonostante le difficoltà economiche e finanziarie, le sanzioni e il crollo del rublo, le crescenti diseguaglianze sociali e demografiche. Nella Russia governata dalla “verticale del potere”, dal controllo statale della comunicazione e dal capitalismo oligarchico che fa capo al Cremlino la politica estera sembra in questa fase far premio sull’assetto interno, ma nell’immenso asimmetrico impero un processo di stabilizzazione sembra configurarsi con la lentezza dei movimenti tettonici.
Il tintinnio dei missili a testata nucleare agitati all’indirizzo dei vicini, scandinavi e nordici, soprattutto riferiti all’installazione di sistemi anti-missile e batterie radar della NATO, le incursioni dei caccia russi che lambiscono lo spazio aereo della regione suonano sinistramente e richiedono appropriate misure, mantengono elevata la tensione e rammentano quasi quotidianamente la fragilità delle intese di Minsk per l’Ucraina. Tuttavia, a fronte delle avventure alle frontiere occidentali cui si guarda con diversa sensibilità, la fragilità del suo scacchiere asiatico non può sfuggire. La Russia resta uno dei principali attori della politica mondiale, nonostante le sue perduranti fragilità e il declino economico e demografico, potenza nucleare con valenza strategica, consapevole della sua specificità storica e culturale e del suo peso politico, consapevole d’essere necessaria componente anche di una soluzione del groviglio medio-orientale. Il dialogo con Putin è certo assai difficile e richiede l’arduo stabilimento di un accettabile livello di verificabile fiducia. Richiede quindi un notevole sforzo di visione politica e di coesione da parte occidentale, di diplomazia attiva europea e soprattutto americana, in vista dello stabilimento di un concerto delle maggiori potenze. Chissà che un venticello Westfaliano non possa spirare anche tra i protagonisti della stabilità mondiale e fornire loro l’ispirazione per un dialogo che sin qui è stato fragile, frazionato e indiretto.  

 Ferdinando Salleo



CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                  LETTERA DIPLOMATICA
         PALAZZETTO  VENEZIA                                            n. 1122 – Anno MMXV
   Via degli Astalli, 3/A – 00186 Roma                                  Roma, 12 maggio 2015
                 Tel. 06.679.10.52