Alberto Pasolni Zanelli
La Siria ha “riconquistato” il
meno invidiabile dei suoi primati: quello dell’attenzione del mondo alle sue
stragi. Archeologica l’ultima e in questo di ampiezza senza precedenti: crollano
sotto i martelli e le asce di barbari antichi e nuovi le colonne, le statue, i
templi, tutto ciò che si trovava fino all’altro giorno, protetto dalla polvere
del deserto e dei millenni, l’oasi di Palmira, una città che era al passato
remoto prima che nascesse Roma e che era sopravvissuta, almeno nei suoi edifici
e nella sua arte, ai millenni. Il mondo ne è trasecolato con ragione, ma al punto
di dimenticare il contesto. Quella guerra che dura da
quattro anni, ha fatto trecentomila morti, è la capostipite del vasto e
complesso conflitto che devasta il Medio Oriente e i cui lutti ricadono così
visibilmente sull’Europa intera, Italia in testa.
Che l’attenzione scivoli via è
comprensibile: ci sono tanti altri teatri di guerra, contemporanei, coerenti,
apparentemente contraddittori. Due settimane fa il “capoluogo” era il remoto
Yemen, l’antica Arabia Felix. Alle sue sponde affluivano navi da guerra di
diversi Paesi, inclusi gli Stati Uniti e non se ne sono andate: incrociano
tuttora in quello Stretto. In Irak si combatteva e si combatte, al punto da
riportare in campo le truppe di terra degli Stati Uniti. E la Libia continua a
polverizzarsi, a perdere le ultime sembianze di uno Stato e di una nazione. E i
terroristi dilagano anche al di là delle frontiere del Medio Oriente e dei
focolai che vi ardono. L’Europa convoca “vertici”, Washington alterna ultimatum
e iniziative mediatorie, Mosca lancia moniti. Gli eventi risvegliano le memorie
anche dei più distratti. Riemerge il ritratto-incubo di questo inizio di
secolo: il tagliagole del Califfato, i massacratori a freddo e a caldo, la
campagna di conquista ma soprattutto di distruzione che non pone limiti neppure
geografici ai suoi obiettivi.
Il mondo reagisce, ma come? Non è
finora stata pronunciata la parola che indicherebbe una scelta, una presa di
coscienza, il giudizio in merito, la dichiarazione che, in una guerra civile
con tanti protagonisti e tanti “cattivi”, ce n’è uno più cattivo di tutti gi
altri, più pazzo, più pericoloso. E ha un nome, una sigla: Isis. La sorte di
Palmira potrebbe, dovrebbe indurre a pronunciare un giudizio, a uscire dalle
esitazioni e dalle contraddizioni. Ancora oggi, il mondo civile tenta di “equilibrare”
il proprio giudizio e le proprie azioni, combatte i tagliagole in un Paese,
chiude gli occhi sui suoi delitti in un altro, giunge a favoreggiarlo
indirettamente in un terzo. Sulla strada per Bagdad i terroristi incontrano le
armi dell’Occidente, sulla via di Damasco incontrano un nemico che quelle
stesse armi hanno colpito e dunque indebolito.
Sul fronte siriano uno degli assi
nella manica dell’Isis è l’alleanza con Al Nusra, una appendice di Al Qaida che
parte almeno dell’Occidente indirettamente benedice. Dopo quattro anni di guerra
civile la riscossa del regime di Damasco si è arenata, Assad è di nuovo sulla
difensiva, cominciano a mancargli le forze. I suoi sostenitori sono in
minoranza sul campo e isolati nel Medio Oriente. Sono i suoi “correligionari” alauiti
e i cristiani un po’ di tutte le sette che si sentono e sono minacciati di
massacro unicamente per la loro fede. Sono stati, diversi anni fa, i primi a
lanciare l’allarme, a cercare di spiegare che la dittatura è, almeno per loro,
il male minore. La diplomazia vaticana ha fatto presente certi aspetti della
situazione, con la massima debita diplomazia, ma senza essere molto ascoltata. Organi
internazionali e i governi che li muovono, insistono ancora in questi giorni
per condannare i modi di guerra del regime di Damasco, emettono statistiche che
spesso danno l’impressione che a sparare sia una parte sola e gli altri
pacifici dimostranti. Fu così, forse, nei primi giorni del conflitto, non lo è
da anni. Vengono resuscitati i dubbi sulla completezza della consegna da parte
di Damasco degli arsenali di agenti chimici, avvenuta sotto la supervisione
americana e russa. Paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia insistono nella
loro scelta di continuare i loro aiuti al “fronte sunnita” (alla cui testa
ormai si è posto l’Isis) pur di far causa comune contro gli sciiti aiutati
dall’Iran. Gli stessi che sono invece invocati come “fratelli d’arme” nel
vicino Irak. Tutte queste contraddizioni si possono spiegare, hanno radici
nelle sette guerre (ma forse sono anche di più) contemporaneamente in corso nel
Medio Oriente. Ma spiegare non equivale necessariamente a giustificare.