Michele Allegri
Il
generale Aldo Lisetti è un carabiniere che ha indossato per quarant’anni la divisa
operando al servizio della giustizia e dello Stato.
La
sua carriera nell’Arma è stata una scalata lenta ma progressiva che, da allievo
carabiniere, lo ha portato fino al grado di Generale di Corpo d’Armata.
Il
servizio prestato per più di vent’anni nell’organico del S.I.S.De (Servizio per
l’Informazione e la Sicurezza Democratica), come si chiamava in quegli anni il
servizio segreto civile, fino ad arrivare alla qualifica di dirigente generale
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno ulteriormente contribuito a
fare di lui un uomo schierato nella difesa delle Istituzioni repubblicane e
democratiche.
Nel
suo libro autobiografico “La gavetta del Generale dell’Italia Repubblicana”
(D’Arco Edizioni), il generale Lisetti si racconta, riferendo “fatti e situazioni sulla base della cartella
personale, dello stato di servizio, di documenti e di annotazioni, nonché delle
cronache giornalistiche dell’epoca” che coprono un lasso di tempo che va dalla
metà degli Anni Cinquanta alla metà degli Anni Novanta del secolo scorso.
D. Generale Lisetti, al lettore di questo suo
libro autobiografico non sfuggirà che Lei ama molto scrivere. Perché ha scelto
di raccontarsi? Che cosa ha significato per Lei la “gavetta”?
R. Ho letto molto sin
da ragazzo e mi piace scrivere per comunicare con gli altri. Dai libri nascono
nuove conoscenze, conversazioni, confronto di idee, approfondimenti e, perché
no, critiche che servono anche ad arricchire culturalmente, a riconoscere
carenze ed eventuali errori. Negli ultimi anni della mia carriera, pensando al
futuro da pensionato, avevo previsto l’impegno di giornalista e di scrittore e
ci sono riuscito. Ritengo che scrivere e comunicare sia molto importante e
renda ogni uomo partecipe dell’attività culturale e sociale della Comunità, del
Paese in cui vive. Nello specifico della domanda preciso che, all’inizio degli
anni Duemila, ho scritto numerose biografie di ufficiali e sottufficiali delle
Forze Armate caduti nella Seconda guerra mondiale nell’ambito del progetto sul
“Percorso della Memoria” voluto dal presidente della Provincia di Latina (Armando
Cusani) dopo la concessione al Gonfalone provinciale della Medaglia d’Oro al
Merito Civile da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel
2005. Al termine, mi è sorta spontanea l’idea di pubblicare un libro su mio
padre, ufficiale dei Carabinieri che aveva partecipato a tutte le guerre dal
1934 in poi: Africa Orientale, Spagna, Albania, fronte greco-albanese e,
rientrato in Patria ferito e ammalato, guerra di Liberazione anche nelle
formazioni partigiane. Infine, ho proposto la mia autobiografia, partendo dalla
difficile situazione del Dopoguerra, dando continuità alla tradizione
familiare di Servitori dello Stato.
D.
Perché ha deciso di essere un carabiniere? Che ricordi ha del primo periodo
della sua formazione presso
la Scuola Centrale Carabinieri di Firenze e di Torino?
R. Da bambino, alla
domanda di familiari e conoscenti su cosa intendessi fare da grande, rispondevo
sempre “Il Calabiniele” perché non riuscivo ancora a pronunziare la “r”, come i
cinesi. Delle Scuole di Moncaliere (Torino) e di Firenze ricordo i grandi
sacrifici, le dure prove alle quali gli allievi venivano sottoposti, la serietà
degli studi e le esercitazioni al combattimento anche sui mezzi corazzati.
D.
Come mai poi decise di diventare un ufficiale? Quali sono le attività criminali che Lei ha maggiormente
affrontato in questo nuovo ruolo?
R. Prima di
arruolarmi avevo frequentato il liceo classico, la mia famiglia aveva una lunga
tradizione di ufficiali nelle tre Forze Armate, i miei cugini più grandi
avevano intrapreso la stessa carriera ed io mi sentivo il “pulcino nero” per
aver deciso a diciassette anni di partire dalla gavetta. Dopo essere
rimasto orfano di madre a tredici anni vivevo con la nonna ed un fratello di
appena cinque anni e avvertii la necessità di rendermi autonomo; ma non ho mai
perso la determinazione di diventare ufficiale ed ho lottato per raggiungere il
risultato con le mie sole forze. Da sottufficiale ho comandato alcune squadriglie
repressione banditismo in Sicilia e poi ho prestato sempre servizio nei comandi
territoriali. In provincia di Caserta, nei primi anni Sessanta, ho comandato
stazioni e nuclei investigativi per la lotta alla criminalità e alla “camorra”
del tempo. Poi, da ufficiale, ho retto i comandi delle compagnie di Andria
(BA), Larino (CB), Gaeta e Formia (LT) e San Giovanni Valdarno (AR). Ho
combattuto, quindi, la criminalità comune e quella organizzata.
D.
Col grado di capitano, nel 1979, lei entra ufficialmente a far parte dei
servizi segreti riformati qualche anno prima con la legge n. 801/77. Un incontro casuale o una chiamata diretta
per via delle sue qualità d’investigatore provetto?
R.
Nei
servizi segreti appena riformati fui “prepotentemente” chiamato nel 1978 dal
prefetto Gaetano Napoletano, primo segretario generale del CESIS, che mi
conosceva e mi stimava per il mio impegno in campo investigativo. Qualche anno
prima mi aveva proposto per la medaglia d’argento al valor civile per un’azione
operativa che aveva avuto grande eco nazionale, premiata dal Comandante
Generale dell’Arma con un encomio solenne.
D.
Sul finire degli anni Settanta lo Stato è messo a dura prova dal terrorismo
“rosso” e “nero”. Il 1978 segna la fine di un ciclo storico della vita della
Repubblica con il rapimento e l’uccisione, da parte delle BR, dello statista
democristiano Aldo Moro e della sua scorta.
Lei
è ancora carabiniere ma già partecipa ad alcune operazione del S.I.S.De, come
quella in Toscana per la ricerca del luogo dove stava prigioniero l’on Moro,
come ricorda quel periodo?
R. Alla fine degli
anni Settanta la tensione sociale in Italia era molto forte e si temeva il
peggio. Fu il periodo più nero degli anni di piombo. A gennaio 1978, poco dopo
il mio trasferimento da Gaeta a San Giovanni Valdarno, fui chiamato
personalmente dal prefetto Napoletano che mi chiese la disponibilità di operare
al suo fianco nella lotta al terrorismo. Aderii, ma il comando generale
dell’Arma indugiò per molti mesi prima di rendermi disponibile. Tuttavia dopo
il sequestro dell’onorevole Aldo Moro e l’eccidio della sua scorta a Roma (16
marzo 1978) fui contattato più volte dal prefetto Napoletano e dal questore
Antonio Fariello, capo della Criminalpol del Ministero dell’Interno per fornire
collaborazioni informative. Nei primi di maggio successivo fui convocato
ufficialmente dal vice capo della polizia Santillo per partecipare con i miei
carabinieri ad alcune battute nelle zone montane dell’Aretino alla ricerca
dello Statista. Soltanto dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, il 9 maggio
1978, le pratiche per il mio trasferimento al Sisde furono celermente concluse
ed entrai nel servizio alle dipendenze del generale dei carabinieri Giulio
Grassini perché il prefetto Napoletano si era dimesso. Fu un periodo di grande
impegno operativo ed anche di ansie e preoccupazioni. Il Sisde era un organismo
appena costituito da uomini di diversa provenienza e preparazione professionale
(carabinieri, poliziotti, finanzieri, civili) che aveva organici molto ridotti
e la necessità di trovare un proprio “spirito di corpo” ed il giusto regime
operativo.
D.
Non furono tutte rose e fiori con il S.I.S.De. e come spesso accade, le ombre oscurano
le luci. Nei primi Anni Novanta qualche funzionario infedele mise a dura prova
l’immagine del Servizio. Quello fu anche un periodo turbolento per lo Stato: la
fine del conflitto Est-Ovest con la caduta del muro di Berlino aveva aperto la
crisi dei partiti della “Prima Repubblica” cui si aggiungeva un’escalation di
attentati mafiosi senza precedenti che
culminarono con la morte dei giudici Falcone e Borsellino. Cosa ci dice di
quegli anni?
R. Negli anni
successivi gli Organismi d’Informazione e Sicurezza si trovarono spesso in
bufere che provocarono campagne di stampa “dirompenti” con conseguenti
sostituzioni dei vertici, nonostante i buoni risultati conseguiti dai Servizi
in campo informativo e operativo. In particolare il livello d’intelligence fu
elevato nei periodi di direzione dei prefetti Emanuele De Francesco (1981 – 1984),
Vincenzo Parisi (1984 – 1987), Alessandro Voci (1991 - 1992) e Angelo
Finocchiaro (1992 – 1993). Ma tra la fine degli anni Ottanta ed i primi del
Novanta in ambito politico ed istituzionale si aprì una vera caccia alle
streghe e si andarono a scoperchiare pentole del malaffare ovunque con
l’intervento pesante della magistratura. Contestualmente la mafia alzò la testa
e compì una serie di assassinii (magistrati, poliziotti, carabinieri). Tanti
furono gli scandali “proclamati” a piena pagina dai giornali e dalle reti
televisive, altrettante furono le strumentalità politiche. Produssero molti
suicidi e “decapitazioni” istituzionali, in stretta successione con
coinvolgimento delle più alte autorità dello Stato. L’aspra e incontrollata
lotta tra gruppi di potere impose la cosiddetta Seconda Repubblica per
conseguire il rinnovamento della classe politica. Negli stessi anni avevo
raggiunto un ruolo di rilievo nel Sisde: capo di gabinetto, poi capo di tutti i
reparti della direzione, presidente e componente di varie Commissioni anche a
livello interministeriale. Ebbi incontri e contatti frequenti con i magistrati
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ed Enrico Caponnetto, dall’epoca del
maxiprocesso sino alla vigilia degli eccidi dei primi due. Vissi gli scandali dei
fondi neri, delle epurazioni del personale volute dal presidente Ciampi, delle
inchieste del presunto coinvolgimento del servizio segreto nell’omicidio della
contessa Alberico Filo della Torre, dei processi e condanne di una decina di
dirigenti, che si erano appropriati di ingenti somme di denaro dei fondi
riservati. Contemporaneamente alcuni magistrati tentarono di farmi rivelare
segreti di Stato, tra i quali l’identità della famigerata fonte “Achille” che
aveva spiato il pool di “mani pulite” di Milano. Accompagnai fuori
dall’emergenza, in conclusione, la direzione del Sisde sino al 1996, riportando
nell’alveo della corretta amministrazione il servizio, recuperando cinque
miliardi di lire nel bilancio annuale e restituendoli allo Stato in conto tesoro.
Alla fine, pressato da ogni parte, decisi di dimettermi per difendermi a mia
volta da accuse infamanti e assurde, dalle quali uscii a testa alta con
l’assoluzione per “non aver commesso il fatto” e le scuse, in dibattimento e
fuori dall’aula, da parte dello stesso magistrato che aveva formulato il capo
d’imputazione.
D.
Tra i suoi impegni civici, una volta in pensione, c’è stata anche
l’amministrazione, in qualità di sindaco, del Comune di Campodimele, un luogo ameno
in provincia di Latina dove, si dice, risiedano le persone più longeve
d’Italia.
Come
giudica la sua esperienza di amministratore e come le è parsa la politica da
vicino?
R. Andato in
pensione, proposto da una coalizione di partiti, ho accettato la candidatura a
sindaco di Gaeta nel 1998 e, tra otto candidati sono andato al ballottaggio
perdendo la competizione finale per un pugno di voti. Sono stato capo
dell’opposizione per quattro anni, ho ricoperto incarichi in vari enti locali,
tra i quali quello di vicepresidente del Parco Naturale dei Monti Aurunci
istituito dalla Regione Lazio. Nel 2002 sono stato eletto sindaco di
Campodimele, paese nel quale andavo a villeggiare da trent’anni e dove avevo
svolto un decisivo ruolo di promozione socio-culturale per salvare il paese
stesso dallo spopolamento e dalla preannunziata estinzione. Ho contribuito a
renderlo noto nel mondo per l’accertata longevità dei suoi abitanti sulla base
delle indagini Istat e dell’Oms e per un intenso programma culturale con il
coinvolgimento di tanti Vip (sono in procinto di pubblicare il libro “Legàmi
d’Arte” con 160 schede biografiche di attori, musicisti, poeti e scrittori). Ho
praticato la politica sino al settembre 2014 e ne sono uscito con l’amaro in
bocca. La faziosità, la lotta tra le istituzioni politiche e statali, la
prevalenza degli interessi personali su quelli della collettività, la malvagità
di avvalersi della denunzia anche anonima per far mettere sotto accusa
l’avversario anche se si sa bene chi è innocente pur di infangarlo e
distruggerlo con perverse campagne di stampa, prima ancora che la magistratura
indaghi ed emetta le sue decisioni. Ho accettato, nel 2007, la delega del
Presidente alla sicurezza sociale in provincia di Latina a condizione che
potessi farlo senza compensi e partecipazione a decisioni amministrative. Ho
concluso il mandato nel settembre 2014 senza danni e con la soddisfazione di
ricevere dal Presidente della Repubblica la “Medaglia Mauriziana” per dieci
lustri di carriera “senza macchia” e la promozione a Generale di Corpo d’Armata
nel ruolo d’Onore. Ma è stata veramente duro servire la Patria o le Istituzioni
democratiche dello Stato.
Per
contattare il generale Lisetti, www.aldolisetti.com