Alberto
Pasolini Zanelli
La campagna elettorale in Turchia si è
chiusa con un voto chiaro e con prospettive nebulose. Non è neppure escluso che
entro pochi giorni se non poche ore i cittadini siano richiamati alle urne per
un bis. Che sarebbe però una prova in più delle dimensioni della sconfitta di
Erdogan. Il capo dello Stato ha mancato infatti tutti i suoi obiettivi, uno
dopo l’altro. Voleva una maggioranza a prova di bomba che gli consentisse di
trasformare la Turchia in Repubblica presidenziale e non ce l’ha fatta. Si
sarebbe forse dovuto accontentare (sulla base dei sondaggi uniformemente
negativi) di mantenere la maggioranza assoluta in Parlamento e invece l’ha
persa. Adesso gli rimane la scelta, obbligata, tra cercarsi un partner per un
governo di coalizione fra i tre partiti di opposizione, che hanno ciascuno i
suoi buoni motivi prevalenti per dirgli di no. Oppure ricorrere a un bis di un
salto nel buio alle urne in una congiuntura politica e psicologica pesantemente
negativa.
Egli ha giocato d’azzardo e francamente
non è del tutto chiaro perché lo ha fatto: aveva – e ha – in mano la presidenza
della Repubblica e una maggioranza alla Camera. Da quella piattaforma ha
cercato di compiere il Grande Balzo per trasformare le istituzioni a suo
piacimento e, fra l’altro, battere il record assoluto di durata detenuto da
Kemal Ataturk, tecnicamente il suo “modello”, in realtà l’incarnazione dei
principii opposti ai suoi. Per arrivarci Erdogan ha condotto una campagna
elettorale che si può definire isterica, passando da una difesa rivendicativa
dei risultati dei suoi anni di potere (non uniformemente negativa come
dimostrato da precedenti consultazioni influenzate dal buon andamento
dell’economia) a un attacco senza frontiere, accusando i partiti concorrenti di
qualcosa di molto simile all’“alto tradimento” e invocando l’ergastolo per il
direttore di un giornale reo di aver pubblicato documenti fotografici che
dimostrano che la Turchia continua a fornire armi ai fondamentalisti islamici nella
guerra civile che infuria da quattro anni a Damasco e che ha per obiettivo
l’abbattimento del regime nazionalista di Assad. Una insistenza che va abolendo
le frontiere fra le varie fazioni armate e portando il governo di Ankara ad
allearsi in pratica non solo con i gruppuscoli fedeli ad Al Qaida e alla
memoria di Bin Laden, ma anche con i tagliagole dell’Isis.
Una strategia che vede comunque un Paese
semieuropeo come la Turchia coinvolto in guerre religiose interislamiche e
dalla parte degli estremisti. Una scelta di campo inizialmente condotta
sott’acqua e quindi abbastanza accettata, ma che è diventata via via evidente e
ha finito fra l’altro per resuscitare, o almeno rendere più attuale, un brutto
fantasma che proprio di questi giorni compie cent’anni: l’olocausto degli armeni
nel 1915, la pagina più sanguinosa del libro di sangue che è stata la Prima
guerra mondiale. Il posto degli armeni come etnia perseguitata l’hanno preso da
tempo i curdi, che da decenni conducono azioni di guerriglia contro il regime,
ma la cui leadership ha imboccato di recente la strada dell’opposizione
democratica. Con ambizioni parlamentari, frustrate finora dalla legge
elettorale che impone un minimo del 10 per cento dei voti perché un partito sia
rappresentato in Parlamento. Stavolta i curdi si sono trovati degli alleati fra
le altre minoranze (a cominciare dalle femministe) e sono balzati al 13 per
cento, sommandosi dunque, con 80 deputati, agli 82 dei nazionalisti e ai 133
dei repubblicani, per un totale 295 seggi all’opposizione contro i 255 del partito
di Erdogan, che avrebbe dovuto conquistarne 330 per poter modificare la
Costituzione come voluto dal presidente. Adesso le ambizioni di Erdogan sono
ridimensionate al bisogno di trovare un partner di coalizione per il suo
partito. Una scelta non facile, anche perché nessuna delle forze di opposizione
accetta una modifica costituzionale in senso presidenzialista. L’“uomo nuovo”
della Turchia è un giovane, il quarantaduenne Selahattin Demirtas, che ha
saputo unire in un partito chiamato “Pace e Democrazia” gran parte delle
minoranze religiose, interne o esterne all’Islam con correnti innovative
“laiche” come il movimento femminista e gli omosessuali. Coloro che chiedono
una “nuova Turchia”, che finirebbe per assomigliare un po’ di più all’Europa.
Quella cui avevano cercato di accostarsi gli autori dell’ultimo golpe militare del
1980. Quello il cui il leader, Kenan Evren, fece seguire il suo appello alla
nazione con una sinfonia di Beethoven.