(Per gentile concessione
del Circolo Studi Diplomatici)
Giuseppe Jacoangeli
L’evoluzione compiuta dalla Cina in tutti
i campi, nell’arco di pochi decenni, è stata senza dubbio un’impresa
straordinaria. Un successo dovuto all’eccezionale dinamismo e alla capacità
professionale della sua classe dirigente che ha saputo valorizzare e
saggiamente mettere a profitto le risorse umane e naturali della nazione,
mostrando al tempo stesso, nei suoi comportamenti nei rapporti internazionali,
forti dosi di spregiudicatezza al punto da non esitare, ogni qual volta lo
abbia ritenuto utile al raggiungimento dei proprî fini, a violare non soltanto
quei principî etici riconosciuti e rispettati dalle nazioni civili, ma anche a
contravvenire a norme di diritto internazionale in vigore. In ogni caso, nel
bene come nel male, la Cina è, oggi, uno dei più importanti e influenti attori
sulla scena del teatro mondiale.
Le sue enormi disponibilità finanziarie,
grazie alle riserve valutarie tuttora in corso di accumulazione, il potenziale
del suo apparato industriale, i progressi che sta compiendo nel campo della
preparazione militare, soprattutto per quanto riguarda la forza navale, i
successi ottenuti finora nella ricerca scientifica e nell’innovazione
tecnologica, nonché la capacità ricettiva di un mercato interno caratterizzato
dal continuo aumento della domanda di beni di consumo di provenienza estera
sono tutti elementi di cui deve tener conto qualsiasi paese interessato a
mantenere rapporti con Pechino.
E’, quindi, comprensibile che ogni nuova
decisione presa dal governo cinese, come ogni iniziativa da questo avviata
finisca per essere oggetto dell’attenzione di tutte le principali cancellerie del
pianeta, interessate a valutarne gli intenti e le possibili ripercussioni sul
piano dei rapporti internazionali.
Così, è stata vista con comprensibile
preoccupazione la creazione, tuttora in atto, di basi militari cinesi in
diverse località insulari nel Mar cinese meridionale; come è motivo di generale
irritazione il frequente ricorso da parte cinese a comportamenti poco ortodossi
in materia valutaria o nel campo del commercio internazionale; e come con
continua apprensione venga vista la scarsa attenzione che quelle competenti
autorità dedicano nello svolgimento delle attività produttive al rispetto delle
norme per la protezione dell’ecosistema.
Un’accoglienza diversa, in quanto ha
raccolto e continua a raccogliere l’approvazione e la partecipazione di un
consistente numero di paesi di ogni continente, ha avuto l’iniziativa cinese di
creare una grande banca internazionale destinata ad operare nel campo
dell’assistenza allo sviluppo: la Banca Asiatica per gli Investimenti nelle
Infrastrutture (the Asian Bank for
Investments and Infrastructures).
* * *
Il progetto cinese di dar vita a questa
nuova istituzione finanziaria poggia sul principio – ormai universalmente
accettato, anche se non sempre rispettato – che un programma di assistenza
inteso a mettere in moto un processo di sviluppo sostenibile, e come tale, durevole
nel tempo, deve partire dalla valorizzazione delle risorse umane e fisiche di
cui il paese effettivamente dispone: e a tal fine necessita di tutte le
infrastrutture all’uopo indispensabili. L’insuccesso, purtroppo frequente, di
molti programmi di assistenza è dovuto al fatto che non si sia tenuto nella
dovuta considerazione questo aspetto essenziale di ogni intervento volto a
favorire il progresso economico e sociale di determinate aree geografiche.
La nuova banca partirà con un capitale
iniziale di 100 miliardi di dollari, dei quali 50 miliardi a carico della Cina,
gli altri 50 divisi fra i paesi che hanno già accettato o accetteranno in
seguito di partecipare all’impresa.
Impresa che ha irritato profondamente gli
Stati Uniti, preoccupati che il nuovo strumento finanziario multilaterale,
dotato di risorse largamene superiori a quelle delle analoghe organizzazioni
esistenti, la Banca Mondiale e le Banche regionali di sviluppo da essa derivate
– ma ormai in graduale perdita di prestigio e di efficacia, anche per l’inadeguatezza
delle loro attuali risorse – offra alla Cina la possibilità di ampliare
ulteriormente la propria sfera di influenza nelle diverse regioni del globo,
soprattutto nell’area dell’Estremo Oriente e lungo le coste del Mar delle
Andamane e dell’Oceano Indiano, dove Pechino sta cercando di creare punti di
appoggio lungo quella che dovrebbe diventare la via marittima della seta, la
versione moderna della via della seta di antica memoria.
Washington ha cercato di convincere almeno
i paesi amici ed alleati ad astenersi dal prender parte al nuovo istituto
finanziario, ma senza alcun risultato, perché fin dall’inizio i principali
paesi europei, tradizionalmente vicini agli Stati Uniti – quali il Regno Unito,
la Germania, la Francia e l’Italia hanno già aderito all’iniziativa cinese. Lo
stesso hanno fatto, fra i circa 60 paesi già presenti nel nuovo ente, anche
l’Australia e la Corea del Sud, mentre il governo giapponese è ancora incerto
sulla via da seguire.
Non accade con frequenza che una richiesta
di Washington venga fin a tal punto disattesa, ma nell’attuale situazione
dell’economia mondiale, impegnata da tempo in uno sforzo per uscire dalla lunga
crisi, la prospettiva per i paesi industrializzati di partecipare con proprie
imprese alla realizzazione di progetti dal costo ciascuno di centinaia di
milioni i dollari, nel quadro di programmi finanziati dalla Banca, è troppo
allettante per potervi rinunciare. Lo stesso Regno Unito, fino ad ora sempre
strettamente legato all’America, ha visto nella massa di liquidità che la Banca
metterà in circolazione, prospettive interessanti per la piazza finanziaria di
Londra, uno dei maggiori punti di forza dell’economia britannica. Il Giappone
invece non ha ancora fatto conoscere le proprie intenzioni ma la sua
indecisione è comprensibile.
* * *
A Tokyo il governo è evidentemente
combattuto fra la riluttanza ad entrare in un organismo guidato dalla Cina,
incorrendo al tempo stesso nella disapprovazione americana e la prospettiva di
restare fuori da un istituto internazionale che, grazie al potere finanziario
del paese fondatore, sarà in grado di mettere in moto un insieme di progetti
nel campo delle infrastrutture che darà un impulso straordinario ad un processo
volto a ridisegnare l’architettura economica dell’Estremo Oriente: anche perché
i paesi dell’area possono già considerarsi come paesi in fase avanzata di
sviluppo e quindi in grado di beneficiare in tempi brevi di appropriate riforme
strutturali.
Per un paese già molto coinvolto nelle
attività di cooperazione con i paesi dell’area, non si vede come possa Tokyo,
per considerazioni di ordine politico, ancor prima che economico, tenersi fuori
dal progetto cinese.
Il Giappone è fra i fondatori dell’Asia – Pacific Economic Cooperation Forum e dell’East Asia Summit. Occupa il primo posto fra i paesi
industrializzati che concorrono all’assistenza allo sviluppo: fra aiuti
bilaterali e finanziamenti agli organismi internazionali la quota giapponese
supera i 10 miliardi di dollari all’anno: di questa cifra, oltre il 50% è
destinato ai paesi dell’area estremo-orientale. Occupa, fin dagli anni ’90 il
primo posto fra i paesi contribuenti nel quadro degli aiuti pubblici allo
sviluppo, con interventi in una vasta gamma di settori dell’economia.
L’esperienza accumulata in questo campo,
unita alla profonda conoscenza che i nipponici hanno dell’economia dell’Asia
orientale, anche grazie all’attività svolta all’interno della Banca Asiatica di
Sviluppo, farebbe del Giappone un protagonista di primissimo piano
dell’attività della AIIB.
Il rapporto con gli Stati Uniti è stato,
negli ultimi settanta anni il pilastro sul quale poggia la politica estera del
Sol Levante: un rapporto fondamentale e irrinunciabile che è rimasto inalterato
nel corso del tempo, anche se durante gli ultimi decenni Tokyo abbia provveduto
a dotarsi di un importante apparato militare, soprattutto in campo navale, per
ridurre la propria dipendenza dalla protezione americana.
Ma se le relazioni con Washington restano
per Tokyo una priorità, non è meno importante, perché di vitale interesse per
il paese, l’insieme delle relazioni che esso deve mantenere e coltivare con le
nazioni della regione estremo-orientale. Se il Giappone scegliesse di assistere
da semplice spettatore alla realizzazione, sotto la guida della Cina, di un
progetto destinato, almeno negli intenti, a fare dell’Asia Orientale una delle
aree più progredite del mondo, finirebbe per pagarne il prezzo, in termini di
emarginazione in campo politico, in campo economico.
* * *
Non sono peraltro del tutto chiare le
motivazioni che hanno indotto la Cina a dar vita ad un nuovo istituto
finanziario multilaterale.
La classe dirigente cinese non ha mai
mostrato di essere particolarmente attratta, nei rapporti economici con il
resto del mondo, dal multilateralismo. Se guardiamo ai rapporti di cooperazione
che il Celeste Impero mantiene con i paesi di proprio interesse, vediamo che
questi poggiano prevalentemente su una serie di accordi bilaterali. Sono
accordi attraverso i quali Pechino cerca la sicurezza dell’approvvigionamento
di fonti di energia, di materie prime, di prodotti semilavorati e di altri beni
dei quali la propria economia ha insaziabile esigenza.
La caratteristica di questi accordi è la loro
asimmetria, in quanto la maggior parte dei benefici va alla Cina e non
all’altra parte contraente. Nel quadro dei negoziati Pechino concede prestiti a
bassissimo tasso di interesse per lo sfruttamento di risorse locali destinate
in gran parte alla propria economia: le relative operazioni avvengono con
macchinari e materiali importati dalla Cina, con una mano d’opera
prevalentemente cinese e per quanto riguarda la mano d’opera locale con metodi
che trascurano oltre misura le norme relative ai diritti dei lavoratori.
Alcuni governi si sono visti costretti a
denunciare gli accordi e ad interrompere i lavori; altri contraenti potrebbero
essere indotti a seguirne l’esempio.
Comincia così a diffondersi nel mondo un
clima di diffidenza, se non addirittura di ostilità verso i metodi praticati
dalla Cina – si parla di nuove forme di colonialismo e di imperialismo – e la
dirigenza cinese non poteva non comprendere come questa perdita di immagine
possa alla lunga essere molto dannosa per il paese.
Da qui è nata l’esigenza di un recupero di
immagine, si può ritenere che a tal fine il governo abbia ritenuto opportuno un
decisivo cambiamento di rotta nelle sue relazioni con i paesi emergenti o in
via di sviluppo, attraverso la presentazione di uno strumento multilaterale
dotato delle risorse finanziarie necessarie al rilancio di un nuovo grande
progetto di cooperazione allo sviluppo.
Quale sarà il futuro di questo progetto lo
si vedrà in corso d’opera. Ma sul piano politico un successo per la Cina c’è
certamente già stato, se la maggior parte dei paesi occidentali ha scelto di
incorrere nella disapprovazione di Washington piuttosto che rinunciare ad
associarsi alla realizzazione di un programma che, considerato lo stato di
servizio del suo promotore, sembra destinato ad un esito positivo.