Alberto Pasolini Zanelli
Le immagini più sintetiche, forse
più vere, del piccolo Congresso in corso a Vienna ci vengono dalle pause. Quelle
in cui si vede, fra l’altro, il Segretario di Stato americano John Kerry
zoppicare per i corridoi appoggiato a un complesso sistema di bastoni cui egli
appoggia la gamba fratturata nella meno diplomatica e accorta delle sue
iniziative: quella di scalare su una bicicletta da corsa uno dei Colli
dell’Alta Savoia in una imitazione delle decisive tappe alpine del Tour de France.
Fatica il continuatore ed emulo di Kissinger a muoversi in un contesto che la
sua disavventura fa senza precedenti ma che in realtà era complicata e contorta
da molto prima. La prima anche della stipulazione in extremis di un documento
che dovrebbe o almeno potrebbe “sistemare” in qualche modo, magari provvisorio,
la diatriba fra gli Stati Uniti e l’Iran che è all’origine di una contesa molto
aspra con più capitoli e più contraddizioni di quanto non si vorrebbe fare
apparire da entrambe le parti. Si tratta, in sostanza, di un accordo nucleare,
ovvero antinucleare: quello che dovrebbe porre fine alle paure dell’America e
dei suoi alleati e clienti mediorientali attraverso un’impegnativa rinuncia
dell’Iran ai progetti nucleari che Teheran smentisce pur lasciando spazio a
delle allusioni e che verrebbe ripagata da una promessa, egualmente vaga, di
Washington di porre fine alle sanzioni soprattutto ma non solamente economiche disegnate
e attuate per impedire questo sviluppo.
Non è solo sull’Iran che l’equivoco
è mantenuto. Questo Paese è uno dei tre accusati ai tempi dell’Amministrazione
di George W. Bush di far parte di un Asse del Male, denunciato subito prima
dell’attacco americano all’Irak di Saddam Hussein e di cui doveva far parte
anche la Corea del Nord. Una “costellazione” improbabile che in teoria non
funzionò ma che ebbe una sua utilità. I tre “accusati” reagirono in maniera
diversa, presentandosi come diverse realtà. L’Iran negò lasciando intendere che
sotto sotto qualcosa faceva. La Corea del Nord affermò orgogliosamente di
essere quasi arrivata al traguardo, anche se degli indizi dicevano il
contrario. L’Irak non si seppe difendere ma comunque era nel mirino. Gli altri
“imputati” si salvarono grazie all’emersione di una realtà: che chi è ritenuto in
qualche modo colpevole di proliferazione nucleare, non viene attaccato perché
“potrebbe anche essere vero” mentre il Paese nei cui confronti le accuse sono
più fragili, può venire attaccato con rischio minore o minimo. Saddam Hussein
perdette il potere e la vita, gli altri due sono ancora in sella.
C’è differenza fra Corea del Nord
e Iran, nel senso che nella prima soprattutto si parla, mentre nel secondo ci
si preoccupa davvero, spinti dalle ansie di Israele, esposte in termini vitali e,
in seguito anche di alcuni Paesi del Medio Oriente che temono di essere
indeboliti e messi in pericolo da quella concorrenza. La strategia americana è
parallela a quella israeliana, ma ne differisce perché si appoggia meno alla
minaccia di un attacco militare preventivo e di più alle pressioni economiche,
cioè all’embargo oggi in vigore che è uno dei motivi delle tensioni del Medio
Oriente.
simile. Anni di contatti hanno portato un paio
di mesi fa a una intesa preventiva sulla possibilità e necessità di stilare e
controfirmare in breve tempo un documento in cui nessuno né l’uno né l’altro
mostra di credere. Le voci che si sentono di più sono quelle degli scettici. A
Teheran il loro portavoce è il “leader spirituale”, l’ayatollah Khamenei (che
continua a disegnare “linee rosse”) e a Washington è la maggioranza
repubblicana in Congresso, che nelle scorse settimane si è spinta fino a inviare
a Khamenei un messaggio in cui lo si incita a rifiutare il consenso a un testo
firmato da Obama.
È in questa situazione senza
precedenti che dallo “zoppo” John Kerry dovrebbe venire un “miracolo”, simile
ma più in grande, a quello compiuto per scongiurare all’ultimo momento un
intervento americano contro la Siria a causa delle armi chimiche. È inutile
rifare l’elenco degli ostacoli. Verrà ricordato oggi soltanto uno, evocato dai
“falchi” di Washington e cioè il vantaggio meno bellico che economico che
verrebbe all’Iran da una “rinuncia” all’arma atomica attraverso la cessazione delle
sanzioni commerciali americane. Ciò restituirebbe a Teheran molte risorse da
impiegare nell’opera in corso di espansione del Medio Oriente, già in corso in
Irak. È quella la vera “superarma” in mano agli ayatollah. È quello l’ostacolo
più insidioso al dribbling di John Kerry lanciato verso il “gol dello zoppo”.