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Di questo gli altri media americani non parlano.....

Donald Trump’s Companies Destroyed Emails in Defiance of Court Orders

Ricordi dell'alluvione del '66 di Carlo Ciapetti



Carlo Ciapetti  e' un carissimo Amico. Lui veniva a ballare e a strofinarsi con belle ragazze negli infimi locali fiorentini nei quali suonavo con la mia band. Eravamo poco piu' che ragazzi.
Ciapetti e' molto noto a Firenze e sono onorato di potere mantenere con questa grande Persona una consuetudine nata tanti anni addietro. Anche se ci separano piu' di settemila chilometri.
Oscar

La mia alluvione



Franco Bernazzani Bravo Oscar! Finale strepitoso!

Editoriale del Post sul caso FBI-Clinton

Seal of the Federal Bureau of Investigation.svg


POLITICAL TENSION is running high in the United States, extraordinarily so, we’d say. And so it behooves everyone in a position of official responsibility to do everything he or she possibly can to help maintain stability — while avoiding all avoidable provocations — until the bitter competition between Hillary Clinton and Donald Trump runs its ugly course on Nov. 8.
That is the context for Friday’s announcement by James B. Comey, director of the Federal Bureau of Investigation, that his agency is again looking into Ms. Clinton’s private email server in light of newly discovered emails “that appear to be pertinent to the investigation.” Mr. Comey may have had good reason to inform Republican committee chairmen in Congress of the review, but his timing was nevertheless unfortunate, given its potential to affect a democratic process in which millions of people are already voting.
What might his reason be? On the merits, Ms. Clinton erred by using a private email server for her official communications as secretary of state — though as we have previously argued, the matter has been greatly overblown. According to the previous FBI review, the small amount of classified material that moved through Ms. Clinton’s private server was not clearly marked as such, and no harm to national security has been demonstrated.
The FBI conducted a thorough investigation for any prosecutable offenses, especially any involving the transmission of classified information. Mr. Comey rightly recommended against bringing charges; he told his staff that the decision was “not a cliff-hanger.” In deference to the reality that the target of the inquiry was a major-party nominee for president, he gave the public a summary of the facts and law behind his decision.
Mr. Comey went too far, however, in providing raw FBI material to Congress, notwithstanding its important oversight role; that attempt to appease Republicans set a precedent that future partisans who are unhappy with the results of FBI investigations may exploit. Hillary Clinton calls on FBI to release information on emails

Democratic presidential candidate Hillary Clinton spoke to reporters Oct. 28 in Des Moines about the FBI's new inquiries into the private email server she used as secretary of state. Hillary Clinton speaks to reporters Oct. 28 about the FBI's new inquiries into the private email server she used as secretary of state. (Photo: Melina Mara/The Washington Post; Video: The Washington Post)
Mr. Comey found himself in a bind when his investigators turned up additional, previously unexamined Clinton emails, apparently on devices belonging to top aide Huma Abedin and her husband, Anthony Weiner, seized during an FBI probe of the latter’s alleged sexual misconduct with a minor. (As if this could not get any more bizarre.) If Mr. Comey failed to tell Congress before Nov. 8 about his decision to review them, he would be accused — again — of a politically motivated coverup. By revealing it, he inevitably creates a cloud of suspicion over Ms. Clinton that, if the case’s history is any guide, is unwarranted. Hence Clinton campaign chairman John Podesta’s not unreasonable demand that Mr. Comey “immediately provide the full details of what he is now examining.”
Mr. Podesta said he is “confident” full disclosure “will not produce any conclusions different from the one the FBI reached in July.” If so, the question will be how badly damaged was Ms. Clinton’s candidacy by the 11th-hour re-eruption of a controversy that never should have generated so much suspicion or accusation in the first place.
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Questi Clinton non sono messi bene con lo FBI.

hillary clinton huma abedin

Questi Clinton non sono messi bene con lo FBI.

La lettera del direttore James Comey ai parlamentari del Congresso a undici giorni dalle elezioni presidenziali nella quale si annuncia che lo FBI riapre un ulteriore file sulle sconsiderate irregolarita' nell'uso di un account privato da parte dell'ex segretario di stato sono forse la pietra tombale sulla nomina della candidata democratica.

Negli ambienti democratici di Washington si dice che si tratta di una ruggine tra Obama e la polizia giudiziaria americana che trova le sue radici addirittura negli ultimi anni della presidenza di Bill Clinton.

 Quando Clinton nomino' Louis Freeh direttore dello FBI lo defini' una leggenda nell'applicazione della legge.

Basta sfogliare il libro scritto da Freeh dopo otto anni di direzione dello FBI ("My FBI") per rendersi conto dei rapporti al calor bianco tra l'allora presidente USA e il suo (si fa per dire ) collaboratore che lo ha sempre accusato di avere scheletri nell'armadio.

Per chiarezza bisogna ricordare che Freeh non ha mai nascosto le sue simpatie per i repubblicani, come del resto, affermano i democratici di oggi, l'attuale direttore James Comey.

E non si dovrebbe dimenticare che il presidente George W. Bush e' stasto eletto sulla base di una decisione della Corte Suprema a maggioranza repubblicana. Tanto per restare nella definizione di democrazia.

Questa ultima bomba lanciata dallo FBI negli ultimi giorni di una confusa e acerrima campagna elettorale sembra si basi su messaggi scritti da Anthony Weiner, ex deputato e ex marito di Huma Abedin , la potente assistente di Hillary, con allegate foto delle sue erezioni inviate a giovinette e conoscenti varie. Questi messaggi sarebbero passati anche utilizzando l'account privato della Clinton.

I prossimi giorni diranno se lo FBI si riterra' disposto a collaborare con la Clinton per rendere chiaro per quale ragione sia stata riaperta una indagine sulla candidata democratica.

Tenendo conto degli umori di una nazione profondamente divisa in due, questa mossa del Bureau sembra avere affossato ogni speranza di vittoria per il partito democratico.

Oscar

Obama: tour degli addii al mondo



Alberto Pasolini Zanelli
Le cronache hanno parlato diffusamente, in questi giorni, del trasloco domestico di Barack Obama allo scadere del suo doppio mandato alla Casa Bianca. Meno del suo tour degli addii al mondo e in particolare all’Europa. Hanno notato, però, che essa terminerà a Berlino, la stessa capitale con cui egli aveva concluso e coronato il suo primo periplo pre-presidenziale, come parte della sua prima campagna elettorale nel 2008. Egli lasciò l’Europa in quei giorni dopo averne riempito le onde sonore e le piazze, Parigi e Londra e soprattutto Berlino che si era riempita di folle plaudenti. I tedeschi avrebbero votato quell’anno per Obama in un rapporto di sei a uno, i francesi addirittura di nove a uno, gli inglesi e gli altri non molto indietro. Non furono gli europei ad eleggere il presidente degli Stati Uniti, però una frazione del loro entusiasmo influì forse sugli umori degli americani. A quei tempi come oggi essi votano diversamente dagli europei, con una differenza: quattro anni prima John Kerry fu trionfatore virtuale dalla parte sbagliata di un oceano sempre più largo. Andò diversamente a Barack, molto più eloquente e attraente, anche per le novità importanti che egli annunciava e incarnava. In Europa ci era andato dopo un giro nel Medio Oriente. Aveva vissuto momenti difficili a Tel Aviv, suscitato interesse e simpatia a Kabul, addirittura dato l’impressione di “sfondare” a Bagdad. Ma fu l’Europa a fare la conoscenza più visibile con l’uomo che poco dopo sarebbe stato insignito di un premio Nobel per la pace sulla sola base delle sue intenzioni. Era come se le folle di Berlino lo avessero previsto, anche se egli stato frenato nel suo progetto originario, di parlare ai cittadini dalla porta di Brandenburgo, a sottolineare una legittimità storica e una continuità con Kennedy (“Ich bin ein Berliner”) e con Reagan (“Mr. Gorbaciov, tira giù questo muro”). Alla signora Merkel non garbava l’idea di essere trascinata in una campagna elettorale americana, per di più dalla parte opposta a quella del presidente in carica. Lasciò che Obama parlasse da un altro monumento e lui, anche se non dal posto in cui crollò il Muro, auspicò che “altri muri cadano”.
È successo esattamente il contrario, per colpa soprattutto del terrorismo nel Medio Oriente e nell’area musulmana in genere, laddove gli americani speravano in una caduta dei regimi autoritari o dittatoriali sotto la spinta di masse ansiose di democrazia. Fra i suoi progetti, gli andò bene soprattutto quello a Cuba, meno quello con l’Iran, poco o niente con la Corea del Nord, malissimo in Siria. E, sorprendentemente, anche con la Russia. Ed è di questo che egli questa volta vuol parlare nel suo tour europeo, in particolare in Germania: invitare gli europei a continuare ad avere fiducia in iniziative politiche Usa che non l’hanno pienamente meritata. Perché i suoi sforzi stavano per fallire o per essere addirittura controproducenti. Obama non è riuscito a restaurare nel Medio Oriente un ordine che non c’era mai stato. Si è arenato soprattutto in Siria, fra Damasco e Aleppo. E sull’altro “fronte”, quello dei rapporti con la Russia, ha dovuto assistere, se non involontariamente cooperare, a un ritorno a temi e accenti della Guerra Fredda, tensioni di cui sono responsabili sia Mosca sia Washington con la sua strategia di allargamento della Nato a Est. Passi indietro che riportano a vicende che così spesso si sono svolte in Germania. Ricordano e le ricordano.

Poi il fiume divento' nero


Cari Lettori:
vi segnalo questo libro sulla alluvione di Firenze che porta in copertina la foto che il 5 novembre 1966 ho scattato dal tetto del palazzo antistante Piazza Santa Croce dove ero asserragliato con altre famiglie a causa della alluvione.
L'altezza dell'acqua in via Torta dove era l'ingresso della casa ha raggiunto  i sette metri e mezzo.
Oscar

Il tipo di elettore repubblicano è molto cambiato



Alberto Pasolini Zanelli
La campagna elettorale è a quasi tutti gli effetti conclusa, il vincitore previsto e scelto. Lo confermano gli ultimi sondaggi, anche se il margine sul competitore pare essersi ridotto, passando da una cifra attorno al 10 per cento a un 5 per cento e a un 6 per cento secondo i due ultimi sondaggi raccolti dalla Cnn. Non ci sono altri segni di recupero da parte di Donald Trump e anche così difficilmente basterebbero a produrre un risultato a sorpresa o almeno un testa a testa negli ultimi giorni. Quello che conta, lo sappiamo, sono i “voti elettorali” e di questi la candidata democratica se ne sarebbe già assicurati 272, due di più del minimo previsto. Il voto popolare, si è visto, mostra la Clinton fra il 47 e il 49 per cento e Trump fra il 41 e il 44. Non sarebbero ancora sicuramente attribuiti due Stati chiave, la Florida e l’Ohio, oltre al North Carolina, Arizona, Colorado e Nevada. Nessuno smentisce queste cifre come proiezione della volontà popolare. Lo ha ammesso di nuovo anche un portavoce del candidato repubblicano. Sono già avviati anche gli appuntamenti immediatamente post elettorali. Si vota l’8 novembre, il nuovo presidente entrerà in carica i primi di gennaio, la Clinton prepara il discorso inaugurale, Obama ha già prenotato una quarantina di mezzi di trasporto per il suo trasloco. E Donald Trump ha già messo in piedi una “inaugurazione” alternativa: quattro giorni prima l’inaugurazione dell’hotel più lussuoso di Washington, sul cui ingresso ci sarà scritto “Trump” a caratteri cubitali, che sorge a pochi metri dalla Casa Bianca e che per la serata inaugurale ha pronta la “suite presidenziale” a mille dollari per notte.
Eppure ancora si discute, fuori dalle prime pagine e dalle aperture di telegiornale, ma fittamente nei retrobottega. Da quelli repubblicani esce perfino, per la prima volta dopo giorni, qualche segno di vita. La parola chiave è “ricorso”. Non è un mistero per nessuno che Donald Trump si riservi delle iniziative in questo campo subito dopo o addirittura durante la giornata elettorale. Lo ha detto e ripetuto con il suo accento gridato e martellato, ma adesso si levano altre voci. Un sondaggio rileva che quasi la metà degli elettori repubblicani è incline a non accettare l’esito del voto e ad avanzare richieste di riconteggi in molti Stati. Almeno in quelli in cui la distanza in voti fra i due candidati sarà molto lieve. Non sarà una decisione su scala nazionale, ma Stato per Stato e le leggi che la regolano sono, come spesso accade in America, molte e disparate. La Costituzione dà al Congresso il potere di mettere da parte una data per convocare i Grandi Elettori (quelli scelti nelle urne il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre. Questa è il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre. È a quella data, infatti, che il presidente viene effettivamente eletto, alle urne si sono scelti solamente i suoi elettori. Ci sono dunque cinque settimane e sei giorni di tempo per esaminare e decidere sui previsti ricorsi. È accaduto talvolta che di questi giorni ci fosse bisogno: l’0ultima fu nel dicembre 2000, quando si decise chi aveva prevalso in Florida, se il repubblicano Bush o il democratico Gore. Fu una maratona di ricorsi, sentenze e contrirocorsi che hanno alla fine decisero per Bush, essendo i voti della Florida decisivi.
Un altro precedente risale al 1960. Il candidato democratico era John Kennedy, quello repubblicano Richard Nixon. Nello Stato dell’Hawaii li dividevano solo novantadue voti e fu proclamato vincitore Kennedy. Così votarono i Grandi Elettori, ma un nuovo ricorso impose una scelta del Congresso. Lo precedeva Nixon nella sua qualità di vicepresidente ancora in carica, ma egli decise, con magnanimità o almeno con stile, di assegnare quei voti al suo rivale.
Da Trump non molti si aspettano un gesto del genere, ma un appello in questo senso gli è già stato rivolto. Ben venti Stati hanno il diritto di rivedere e, se è il caso, cambiare l’esito annunciato dalle urne. Dipende dal tipo di infrazione lamentata. Quest’anno il contenzioso è robusto: i repubblicani parlano apertamente di “truffe”, di voti illegali e di voti rubati. Con particolare energia perché il tipo di elettore repubblicano è molto cambiato rispetto ai tempi di Bush o addirittura di Nixon: lo muove soprattutto la protesta, l’indignazione, la frustrazione. Gli stati d’animo prevalenti in buona parte del ceto medio impoverito e insicuro. Quello che avrebbe preferito Sanders alla Clinton come candidato democratico oppure voterà direttamente per Trump.