Alberto Pasolini Zanelli
Le cronache hanno parlato
diffusamente, in questi giorni, del trasloco domestico di Barack Obama allo
scadere del suo doppio mandato alla Casa Bianca. Meno del suo tour degli addii
al mondo e in particolare all’Europa. Hanno notato, però, che essa terminerà a
Berlino, la stessa capitale con cui egli aveva concluso e coronato il suo primo
periplo pre-presidenziale, come parte della sua prima campagna elettorale nel
2008. Egli lasciò l’Europa in quei giorni dopo averne riempito le onde sonore e
le piazze, Parigi e Londra e soprattutto Berlino che si era riempita di folle
plaudenti. I tedeschi avrebbero votato quell’anno per Obama in un rapporto di
sei a uno, i francesi addirittura di nove a uno, gli inglesi e gli altri non
molto indietro. Non furono gli europei ad eleggere il presidente degli Stati
Uniti, però una frazione del loro entusiasmo influì forse sugli umori degli
americani. A quei tempi come oggi essi votano diversamente dagli europei, con
una differenza: quattro anni prima John Kerry fu trionfatore virtuale dalla
parte sbagliata di un oceano sempre più largo. Andò diversamente a Barack, molto
più eloquente e attraente, anche per le novità importanti che egli annunciava e
incarnava. In Europa ci era andato dopo un giro nel Medio Oriente. Aveva
vissuto momenti difficili a Tel Aviv, suscitato interesse e simpatia a Kabul,
addirittura dato l’impressione di “sfondare” a Bagdad. Ma fu l’Europa a fare la
conoscenza più visibile con l’uomo che poco dopo sarebbe stato insignito di un
premio Nobel per la pace sulla sola base delle sue intenzioni. Era come se le
folle di Berlino lo avessero previsto, anche se egli stato frenato nel suo
progetto originario, di parlare ai cittadini dalla porta di Brandenburgo, a
sottolineare una legittimità storica e una continuità con Kennedy (“Ich bin ein
Berliner”) e con Reagan (“Mr. Gorbaciov, tira giù questo muro”). Alla signora
Merkel non garbava l’idea di essere trascinata in una campagna elettorale
americana, per di più dalla parte opposta a quella del presidente in carica.
Lasciò che Obama parlasse da un altro monumento e lui, anche se non dal posto
in cui crollò il Muro, auspicò che “altri muri cadano”.
È successo esattamente il
contrario, per colpa soprattutto del terrorismo nel Medio Oriente e nell’area
musulmana in genere, laddove gli americani speravano in una caduta dei regimi
autoritari o dittatoriali sotto la spinta di masse ansiose di democrazia. Fra i
suoi progetti, gli andò bene soprattutto quello a Cuba, meno quello con l’Iran,
poco o niente con la Corea del Nord, malissimo in Siria. E, sorprendentemente,
anche con la Russia. Ed è di questo che egli questa volta vuol parlare nel suo
tour europeo, in particolare in Germania: invitare gli europei a continuare ad
avere fiducia in iniziative politiche Usa che non l’hanno pienamente meritata. Perché
i suoi sforzi stavano per fallire o per essere addirittura controproducenti.
Obama non è riuscito a restaurare nel Medio Oriente un ordine che non c’era mai
stato. Si è arenato soprattutto in Siria, fra Damasco e Aleppo. E sull’altro
“fronte”, quello dei rapporti con la Russia, ha dovuto assistere, se non
involontariamente cooperare, a un ritorno a temi e accenti della Guerra Fredda,
tensioni di cui sono responsabili sia Mosca sia Washington con la sua strategia
di allargamento della Nato a Est. Passi indietro che riportano a vicende che
così spesso si sono svolte in Germania. Ricordano e le ricordano.