Alberto
Pasolini Zanelli
. Chi più, chi meno, naturalmente, ma la tendenza al ribasso non ha
risparmiato nessuno, neanche colei che doveva essere la trionfatrice. Il
secondo e penultimo dibattito presidenziale è stato in gran parte divorato da
uno scandalo risonante esploso – o fatto esplodere – poche ore prima e che
doveva essere la botta decisiva alla candidatura di Donald Trump. Milioni di
telespettatori, forse uno su due, si sono seduti davanti allo schermo
aspettando di assistere alle “dimissioni” del candidato repubblicano dalla
corsa alla Casa Bianca. Tutto lo faceva presumere, a cominciare dal testo della
registrazione di undici anni fa che ha riassunto tutto il suo “lessico
femminile”, parole e soprattutto parolacce in libertà, da termini pseudomedici a
frasacce da osteria. Una specie di involontaria “confessione” rivolta a un
“confidente” occasionale (di cognome Bush) in un viaggetto in autobus verso un
teatro dove Trump avrebbe dovuto presentare uno spettacolino alla sua portata.
Da un paio giorni tutto il mondo sa che cosa egli aveva da dire allora, quando
nemmeno pensava a candidarsi per un consiglio comunale, figurarsi alla Casa
Bianca. Le ha dette tutte, tante parole che ormai avranno tutti dimenticato
perché le conoscevano già.
Ma la
pubblicazione di quel video aveva fatto immediatamente l’effetto di una bomba,
o meglio di un colpo di grazia. Per tutto il giorno successivo ci si è
aspettati una rinuncia del protagonista e intanto ci si è accontentati di
registrare le cronache della diserzione del suo partito. Uno dopo l’altro, con
motivazioni variate solo in un paio di termini e alcune virgole o punti
esclamativi, hanno “denunciato” l’appoggio dichiarato fino al giorno prima. In
tanti, da John McCain ad Arnold Schwarzenegger, da mezze dozzine di senatori a centurie
di deputati: tutti o quasi tutti candidati alle altre cariche in palio l’8
novembre che cercano salvezza nella previsione di un “rigetto” totale di tutto
ciò che è repubblicano. Uno degli ultimi a parlare (troppo presto comunque) è
stato l’uomo designato per la carica di vicepresidente, Mike Pence, era stato
scelto personalmente da Trump, si è detto comprensibilmente “offeso come marito
e come padre” dal lessico del suo partner, gli ha proposto di dimettersi e
infine, travolto dal suo zelo, ha lanciato una proposta che capovolgerebbe
l’intera impostazione del candidato e del partito nella politica estera: “Gli
Stati Uniti dovrebbero bombardare l’esercito di Assad in Siria”, vale a dire
allearsi con Isis e Al Qaida.
Poi si è aperto il
dibattito. Trump non ha affatto annunciato la propria rinuncia alla candidatura
ma anzi, una volta recitato il mea culpa d’obbligo e presentato scuse un po’ a
tutti, compresa la moglie che, comprensibilmente, l’aveva presa male. Ha
spazzato immediatamente i dubbi reiterando il suo impegno: “Non ci penso
neanche a dimettermi andrò avanti fino in fondo”. E poi è passato a
“bombardare” Hillary, che gli ha risposto sullo stesso tono. Lei lo chiamato
fra l’altro “stupratore”, lui l’ha battezzata “demonio”. Quando si sono
incontrati non si sono stretti la mano. Hanno risposto alternativamente alle
domande, sempre quelle, degli spettatori. Lei risparmiava le forze da brava
convalescente alzandosi solo per rendere le proprie testimonianze, subito dopo
riposandosi sulla seggiola. Lui, coerente con la sua immagine di macho, non si
è seduto un attimo, parlava in piedi e quando il pulpito toccava all’antagonista,
incrociava a larghi passi attraverso il palcoscenico, passando e ripassando
davanti e dietro di lei? Un atteggiamento che ha indignato una telespettatrice
che ha spedito un tweet con la confessione di avere avuto, guardandolo, paura. “Ho
sempre provato timori quando mi è capitato di avere degli uomini dietro di me”.
All’estremo opposto una sostenitrice di Trump ha mandato via e-mail la sua
assoluzione, sintetizzata in una frase: “Siamo tutti peccatori”. La candidata
democratica si è associata, il repubblicano ha sparato l’ultima cartuccia,
minacciandola, a proposito dei suoi scandali finanziari, che “quando sarò
presidente ti metterò in galera”.
Alla fine hanno
tirato le somme e si è vista una volta di più che, almeno quest’anno, i
dibattiti non decidono niente. Solo 42 spettatori su cento hanno un giudizio
favorevole sulla performance della Clinton, 33 su cento su quella di Trump. E
le intenzioni di voto, rilevate immediatamente dopo la rivelazione scandalosa e
lo scontro verbale accanito, si sono spostate dell’1 per cento. La Clinton è
adesso a quota 42 per cento, Trump 38 per cento. Crescono solo quelli tentati
dalla scappatoia di votare per un terzo candidato, il libertario Gary Johnson.
Oppure di stare a casa. Diventano e restano pari e patta Stati chiave come la
Florida e l’Ohio. Insomma, o crolla tutto o si ricomincia daccapo.