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Il tipo di elettore repubblicano è molto cambiato



Alberto Pasolini Zanelli
La campagna elettorale è a quasi tutti gli effetti conclusa, il vincitore previsto e scelto. Lo confermano gli ultimi sondaggi, anche se il margine sul competitore pare essersi ridotto, passando da una cifra attorno al 10 per cento a un 5 per cento e a un 6 per cento secondo i due ultimi sondaggi raccolti dalla Cnn. Non ci sono altri segni di recupero da parte di Donald Trump e anche così difficilmente basterebbero a produrre un risultato a sorpresa o almeno un testa a testa negli ultimi giorni. Quello che conta, lo sappiamo, sono i “voti elettorali” e di questi la candidata democratica se ne sarebbe già assicurati 272, due di più del minimo previsto. Il voto popolare, si è visto, mostra la Clinton fra il 47 e il 49 per cento e Trump fra il 41 e il 44. Non sarebbero ancora sicuramente attribuiti due Stati chiave, la Florida e l’Ohio, oltre al North Carolina, Arizona, Colorado e Nevada. Nessuno smentisce queste cifre come proiezione della volontà popolare. Lo ha ammesso di nuovo anche un portavoce del candidato repubblicano. Sono già avviati anche gli appuntamenti immediatamente post elettorali. Si vota l’8 novembre, il nuovo presidente entrerà in carica i primi di gennaio, la Clinton prepara il discorso inaugurale, Obama ha già prenotato una quarantina di mezzi di trasporto per il suo trasloco. E Donald Trump ha già messo in piedi una “inaugurazione” alternativa: quattro giorni prima l’inaugurazione dell’hotel più lussuoso di Washington, sul cui ingresso ci sarà scritto “Trump” a caratteri cubitali, che sorge a pochi metri dalla Casa Bianca e che per la serata inaugurale ha pronta la “suite presidenziale” a mille dollari per notte.
Eppure ancora si discute, fuori dalle prime pagine e dalle aperture di telegiornale, ma fittamente nei retrobottega. Da quelli repubblicani esce perfino, per la prima volta dopo giorni, qualche segno di vita. La parola chiave è “ricorso”. Non è un mistero per nessuno che Donald Trump si riservi delle iniziative in questo campo subito dopo o addirittura durante la giornata elettorale. Lo ha detto e ripetuto con il suo accento gridato e martellato, ma adesso si levano altre voci. Un sondaggio rileva che quasi la metà degli elettori repubblicani è incline a non accettare l’esito del voto e ad avanzare richieste di riconteggi in molti Stati. Almeno in quelli in cui la distanza in voti fra i due candidati sarà molto lieve. Non sarà una decisione su scala nazionale, ma Stato per Stato e le leggi che la regolano sono, come spesso accade in America, molte e disparate. La Costituzione dà al Congresso il potere di mettere da parte una data per convocare i Grandi Elettori (quelli scelti nelle urne il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre. Questa è il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre. È a quella data, infatti, che il presidente viene effettivamente eletto, alle urne si sono scelti solamente i suoi elettori. Ci sono dunque cinque settimane e sei giorni di tempo per esaminare e decidere sui previsti ricorsi. È accaduto talvolta che di questi giorni ci fosse bisogno: l’0ultima fu nel dicembre 2000, quando si decise chi aveva prevalso in Florida, se il repubblicano Bush o il democratico Gore. Fu una maratona di ricorsi, sentenze e contrirocorsi che hanno alla fine decisero per Bush, essendo i voti della Florida decisivi.
Un altro precedente risale al 1960. Il candidato democratico era John Kennedy, quello repubblicano Richard Nixon. Nello Stato dell’Hawaii li dividevano solo novantadue voti e fu proclamato vincitore Kennedy. Così votarono i Grandi Elettori, ma un nuovo ricorso impose una scelta del Congresso. Lo precedeva Nixon nella sua qualità di vicepresidente ancora in carica, ma egli decise, con magnanimità o almeno con stile, di assegnare quei voti al suo rivale.
Da Trump non molti si aspettano un gesto del genere, ma un appello in questo senso gli è già stato rivolto. Ben venti Stati hanno il diritto di rivedere e, se è il caso, cambiare l’esito annunciato dalle urne. Dipende dal tipo di infrazione lamentata. Quest’anno il contenzioso è robusto: i repubblicani parlano apertamente di “truffe”, di voti illegali e di voti rubati. Con particolare energia perché il tipo di elettore repubblicano è molto cambiato rispetto ai tempi di Bush o addirittura di Nixon: lo muove soprattutto la protesta, l’indignazione, la frustrazione. Gli stati d’animo prevalenti in buona parte del ceto medio impoverito e insicuro. Quello che avrebbe preferito Sanders alla Clinton come candidato democratico oppure voterà direttamente per Trump.