Alberto Pasolini Zanelli
Un po’ da piangere, molto da preoccuparsi e, per fortuna, anche un pochino da ridere. È lo spettacolo multidimensionale che la campagna presidenziale americana offre senza che nessuno glielo avesse chiesto. Diciamo campagna elettorale per mantenere una continuità almeno nelle denominazioni, perché una campagna elettorale così in realtà si era vista qualche volta in remoti Paesi dell’America Latina, ma mai negli Stati Uniti. Il povero Lincoln, che già diverse settimane fa era stato dipinto in una vignetta come in lacrime sul trono di pietra del suo monumento a Washington, non avrebbe certo motivo di asciugarsi le lacrime: sarebbe disperato. Senza contare i tormenti che proverebbero tanti suoi colleghi del passato, da George Washington a Ronald Reagan, così spesso citato quest’ultimo nei comizi repubblicani.
Il resto è teatro, con numerosi protagonisti. Hillary Clinton e i suoi fedeli reagiscono a una frase buttata là da Donald Trump nell’ultimo dibattito, l’auspicio che lei finisca in galera, immaginando e denunciando un progetto del genere che il candidato repubblicano metterebbe in atto se fosse eletto, stravolgendo così le garanzie della Costituzione americana. Bisogna eleggere Hillary, in sostanza, per evitare un colpo di Stato. Risponde Trump promettendo guerra totale: adesso che i repubblicani mi hanno scaricato e dunque tolto i ceppi, potrò finalmente cominciare a combattere per l’America a modo mio. Ma la Clinton ha alzato ulteriormente i toni, definendosi “l’ultimo baluardo tra voi e l’Apocalisse”. Più in concreto Trump ha denunciato per l’ennesima volta irregolarità, scorrettezze (e probabilmente reati) commessi da Hillary quando era Segretario di Stato (quelli rivelati da Wikileaks) e in più, di nuovo, le misure illegali durante la campagna delle primarie democratiche per impedire la vittoria del concorrente Bernie Sanders. Quest’ultimo probabilmente condivide l’accusa, ma ci tiene a mostrare la propria lealtà di partito e quindi spende le poche parole necessarie confermando il suo appoggio alla Clinton. Fra i repubblicani, invece, continua la diserzione in massa con qualche perplessa eccezione: Ted Cruz, l’ultimo e più accanito avversario di Trump nelle primarie, ha confermato che continuerà ad appoggiarlo, per un unico e allarmante motivo: “Perché Hillary Clinton sarebbe un disastro totale”. Non così il leader del partito al Senato, Paul Ryan, che ha concesso un’intervista telefonica in cui ha cercato di salvare capra e cavoli, meritandosi una risposta sferzante da Trump che si è detto “imbufalito per la sua slealtà”.
Fin qui le battute da commedia. Ma il record del tono apocalittico spetta a uno straniero teoricamente estraneo, l’Alto commissario all’Onu per i Diritti Umani, che ha denunciato Trump come un “pericolo internazionale” per alcune sue frasi particolarmente insidiose. Il commissario, Zeid Ra’ad Al Hussein, è un principe giordano e parla dunque dal Medio Oriente. Sono invece i discorsi di Hillary Clinton a inasprire, a quanto pare, le relazioni già tese con la Russia. I suoi portavoce accusano il Cremlino di avere organizzato lo “spionaggio telematico” della sua corrispondenza e delle manovre dell’apparato contro Sanders. Una aggiunta piccante ma in sé secondaria alla tensione crescente causata dalla posizione di Washington sulla crisi siriana.
E gli elettori che cosa ne pensano? È inevitabile che essi tengano conto delle gaffe, degli infortuni e delle accresciute debolezze di Trump, anche se non prendono troppo sul serio la scelta dell’“arma” per abbatterlo, il suo lessico sessuale. Lo deplorano ma non considerano questo difetto decisivo nella loro scelta. I sondaggi variano: i più attribuiscono alla Clinton un vantaggio oscillante fra gli 8 e i 6 punti percentuali. Quello del Los Angeles Times rileva, invece, i concorrenti esattamente alla pari: 44 per cento a testa, con parecchi indecisi. Ma queste indicazioni potrebbero essere futili se si tiene conto della realtà: che la legge elettorale americana consente che si voti anche prima del giorno delle elezioni. Una tentazione particolarmente forte, insorta otto anni fa con l’entusiasmo di votare per la novità Obama e che a quanto pare è diventata un’abitudine. C’è chi pensa che un elettore su quattro abbia già votato e che altri seguano, essendosi già fatta un’opinione e dunque senza più ascoltare comizi e dibattiti, nonostante il loro tono parossistico. Ma neanche questo è un record: né la Clinton né Trump si sono scambiati, finora, gli epiteti che toccarono nella campagna elettorale del 1824, al candidato democratico Andrew Jackson: lo definirono “assassino, adultero e cannibale”. Il povero Trump si limita per ora ad essere raffigurato, in una vignetta sul New York Times, intento a tastare il sedere alla Statua della Libertà.
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