Alberto Pasolini Zanelli
Il calendario dice “-17”: i giorni che mancano all’appuntamento ufficiale con le urne per eleggere il presidente Usa. Non sarebbe una scadenza di misura straordinaria, se non fosse che è solo un pezzettino di strada. In meno di tre settimane, si sa, i britannici aprono e chiudono una fase della loro storia, elettorale: dalle dimissioni di un primo ministro battuto in Parlamento all’ingresso della sua residenza del successore vittorioso in una campagna elettorale lampo. Gli americani ci mettono un anno, un anno e mezzo; è una vecchia storia. Ma quest’anno ha un significato particolare: perché nei diciotto mesi precedenti si sono compiuti e onorati tutti gli appuntamenti previsti dalla Costituzione e dalle abitudini, ma non si è parlato, almeno fra i candidati, che ben poco dei problemi realmente urgenti o di fondo, percepiti come tali da decine e decine di milioni di elettori americani. È andato così anche l’ultimo dibattito fra Hillary Clinton e Donald Trump, che ha visto problemi come il bilancio, il deficit, la disoccupazione, gli accordi commerciali in obbedienza al dogma moderno della globalizzazione, le tasse, gli stanziamenti per la salute pubblica e per l’istruzione. Ancora una volta questi temi sono stati rimessi frettolosamente nel cassetto e si è parlato d’altro. I candidati, si potrebbe dire, hanno parlato una volta di più soprattutto di se stessi. Nel senso, naturalmente, che l’uno si è dilungato sull’altro e viceversa.
Il conteggio dei minuti dice che all’attacco stavolta ci è andata soprattutto Hillary, cosa non normale dal momento che lei è in testa in tutti i sondaggi. Sarebbe spettato dunque a Donald lanciare l’ultima carica. Lui invece si è limitato soprattutto a rispondere con repliche anche dure ma più “meditate” dei suoi discorsi standard nella prima annata di campagna elettorale. Un commentatore lo ha definito “inesplicabilmente educato”, forse per spiegare in modo indiretto che la sua contradditrice tanto educata non era stata, avendolo aggredito su vari temi, dall’appoggio che Trump ha ricevuto in questa campagna dalle lobby contrarie a leggi restrittive del possesso indiscriminato di armi da fuoco, all’accusa di essere “un fantoccio di Putin” (la risposta stavolta è stata dura ma al contempo un po’ da adolescente: “Fantoccio sarà lei”. Dopodiché Hillary si è vantata di essere stata nella stanza con Obama nel momento in cui arrivò la notizia dell’ucisione di Bin Laden. Aggiungendo una domanda: “E lei quel giorno cosa faceva?”. Qualche incrocio di lame sul famoso “muro” che Trump voleva costruire sulla frontiera con il Messico e di cui adesso non parla quasi più e così via.
Trump ha recuperato l’attenzione dei telespettatori e dei commentatori con una mossa, questa sì, imprevista. Quando ha detto che forse non riconoscerà il risultato delle elezioni. Le parole erano più o meno quelle (e come tali sembra averle interpretate il presidente uscente Barack Obama, che le ha denunciate come un “assalto alla Costituzione”), ma in realtà in termini molto più modesti. Se l’esito del voto sarà chiaro in un senso o nell’altro, il candidato repubblicano lo accetterà. Se i distacchi saranno minimi e reversibili (soprattutto in termini di “voti elettorali” che attribuiscono al primo classificato in ogni Stato la totalità della posta in palio) e i candidati locali solleveranno delle obiezioni di tipo aritmetico o giuridico, allora egli le farà proprie e chiederà che i conteggi vengano rifatti prima di riconoscere la sconfitta. Una formula tutt’altro che inedita: c’è, anzi, una certa abbondanza di precedenti. Il più noto e di più recente memoria riguarda la prima elezione di George W. Bush nel 2000, che vide lui e il suo avversario, il democratico Albert Gore, praticamente alla pari in Florida che era (quella volta e forse anche la prossima) lo Stato decisivo, proclamarono vincitore Bush, poi lo corressero in Gore, poi lo restituirono a Bush e si dovette aspettare dal primo martedì di novembre fino a Natale per sapere chi aveva prevalso per poco più di 500 voti.
Quest’anno potrà accadere che gli Stati oggetto di contestazione siano di più, per un insieme di motivi. Il primo è la maggiore vulnerabilità di un sistema elettorale che non si basa più sulla scheda infilata nell’urna, ma nell’accoglimento e poi scrutinio dei voti tramite macchine elettroniche, compreso il voto a distanza. Trucchi ma anche semplici errori sono di conseguenza facilitati. Senza calcolare altre due specificità: il “voto anticipato”, che ha già consentito in diversi Stati a milioni di americani di esprimere la propria scelta, privandosi così delle informazioni che potrebbero raggiungerlo alla vigilia dell’appuntamento vero e proprio. Ma ancora di più la contestazione non del voto della partecipazione al voto di centinaia di migliaia di americani di cui non è chiaro se abbiano o no questo diritto, dagli immigrati recenti e più o meno legali ai condannati per qualche reato, che nella legislazione di molti Stati perdono per sempre il diritto di voto. Appartenendo essi prevalentemente alle minoranze razziali, sono vicini al Partito democratico, che cerca di mandarli alle urne, ostacolati dai repubblicani che hanno interesse a una minore partecipazione. Se nessuna obiezione passerà, l’ultima previsione sul voto è quella della Fox News (di tendenze molto conservatrici) che attribuisce alla Clinton 18 Stati e 205 voti elettorali e a Trump 19 Stati con 175 “voti”. Il numero minimo per essere eletti è 270. Ci sono dunque altri 158 voti elettorali che possono andare o di qua o di là.
Pasolini.zanelli@gmail.com