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Non è vero che la Colombia abbia detto “no” alla pace



Alberto Pasolini Zanelli. Almeno non è esatto: tutt’al più quella pace l’ha rinviata con un voto al referendum che ha probabilmente deluso di più coloro che si erano fatte più illusioni, soprattutto dunque all’estero. In Colombia non ci sono stati, nel referendum, vincitori né vinti: i “no” hanno prevalso sui “sì” nella misura del 50,2 per centro il 49,8. La cifra più significativa è quella delle astensioni, che hanno superato il 60 per cento. In pratica un colombiano su cinque ha votato per la ratifica dell’accordo di pace, un altro sempre su cinque ha votato “no” e tre su cinque non sono andati a votare.
Sono cifre quasi europee, ma questo referendum non ha quasi niente a che vedere con quelli i cui risultati sono appena arrivati dall’Ungheria mentre si attendono quelli dall’Italia. Da noi si contano in sostanza i soldi, quelli che mancano o vanno dispersi. In Colombia si è invitato la gente a votare pro o contro una utopia, l’accordo di pace più generoso nella storia (almeno di quella moderna) per concludere una guerra civile con un verdetto salomonico: né vincitori né vinti, riconciliazione e amnistia generale. Ne dovrebbero fruire (e il “no” al referendum non cambierà le cose e le attese) i protagonisti di una guerra civile che è durata cinquantadue anni, che ha fatto fra i due e i trecentomila morti e diversi milioni di altre vittime. Un conflitto nato mezzo secolo fa da una rivolta contadina, sistematizzato poi da una ideologia rigorosamente marxista, esasperato da un feroce scambio di rappresaglie con “brigate” antirivoluzionarie e oggi finalmente composto in pratica da una stretta di mano e un abbraccio fra il presidente della Repubblica e il capo degli insorti, Juan Manuel Santos e Rodrigo Londono (che aveva assunto un nome di battaglia rivelatore, Timochenko, da un maresciallo sovietico della Seconda guerra mondiale). Entrambi sono ora candidati al premio Nobel per la pace, il cui vincitore sarà proclamato fra giorni ed ore.
Le trattative sono durate in proporzione con il conflitto, per cui gli “angeli custodi” sono stati Obama e un Castro, l’Onu e il Papa, il “tavolo” dei negoziati era a Cuba. Papa Francesco ha contribuito al di là di una benedizione. La Norvegia, patria del Nobel, aspetta i protagonisti per insignirli. Quello che è mancato, poche ore fa, è stata la ratifica dei cittadini colombiani, quelli che hanno subito un mezzo secolo di atrocità e di aggravata miseria e che avrebbero forse “dovuto” ratificare entusiasticamente questa svolta. Se non lo hanno fatto è perché abbastanza fra loro hanno letto nella proposta di embressons nous una scelta fra due valori: la giustizia e la pace. Erano decenni, forse addirittura secoli, che queste due immagini non venivano messe a diretto confronto, come alternative.
Come dottrina internazionale quella che vede la pace prevalere ci rimanda addirittura al Trattato di Westfalia, che concluse nel 1648 le guerre di religione e durò, almeno sulla carta, fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Da allora, ma soprattutto dopo la Seconda, inclusi gli anni di nascita dei totalitarismi, è stata giù di moda, pressoché cancellata dall’emergere di una Giustizia punitiva in primo luogo dei “crimini di guerra”, in genere amministrata dai vincitori, anche adesso che la sua applicazione è il più brusco e forte impedimento alle paci di cui c’è bisogno, a cominciare oggi soprattutto dalla Siria. La conciliazione fra questi due principii è molto più difficile di quanto i sostenitori della giustizia a ogni costo possano ammettere. La loro carta più pesante sono le sofferenze delle vittime, cui è quasi impossibile chiedere perdono. Proprio in Colombia c’è un esempio significativo. Si chiamava Alberto Uribe, fu ucciso dai partigiani della Farc (Forza armata rivoluzionaria colombiana) in una imboscata, nel 1983. Vent’anni dopo suo figlio Alvaro diventò presidente della Colombia. Lo rimase otto anni, guidò l’esercito in una guerra a morte contro i responsabili del suo lutto, secondo lo slogan “Morti o prigionieri”. Non riuscì a distruggerli, ma li indebolì abbastanza da costringerli alle trattative, condotte dal suo successore, l’attuale presidente Juan Manuel Santos, l’uomo disposto alla stretta di mano e all’amnistia più generosa dell’evo moderno per i crimini di congiure rivoluzionarie. Alvaro Uribe era ancora sulla scena politica e non aveva dimenticato né perdonato. È stato lui a condurre la campagna per il “no” alla pace fra “buoni” e “cattivi”. Non aveva, non poteva avere dimenticato o perdonato il sangue né accettato l’idea di una “parità” anche giuridica fra gli assassini e le vittime. Anche a costo di mettere in pericolo l’Utopia.