Alberto Pasolini Zanelli
Ritroviamoci in un giorno qualsiasi
del 1980. In America è in corso una campagna presidenziale; il candidato
repubblicano è considerato di estrema destra, si chiama Ronald Reagan, cerca di
portare via la Casa Bianca a un presidente democratico, da molti accusato di
indecisione e debolezza. Si chiama Jimmy Carter. L’intero corpo diplomatico
americano in Iran è prigioniero e tenuto in ostaggio dai rivoluzionari
islamici, la tensione con l’Unione Sovietica sta per toccare uno dei vertici
dell’intera Guerra Fredda e una signora riceve indesiderate carezze da un uomo
d’affari seduto accanto a lei in aereo, che si chiama Donald Trump. Tempi
lontani? Reagan fu eletto presidente, i diplomatici Usa furono immediatamente
liberati, cominciò una serie di vertici con il leader sovietico Gorbaciov che
portarono alla fine della Guerra Fredda.
Adesso è in corso una campagna
elettorale americana. C’è un candidato repubblicano accusato di essere di
estrema destra. Alla Casa Bianca siede un presidente, Barack Obama, che molti
accusano di debolezza. Risale la tensione con la Russia, erede dell’Unione
Sovietica. E quella signora si ricorda delle sgradite avances e denuncia, trentasei anni dopo, quel corteggiatore
alquanto cafone.
La Storia si ripete. Prima come
“tragedia”, poi come “farsa”. Lo diceva Karl Marx e quindi anche l’espressione
è andata un po’ giù di moda. Ma certe volte ridiventa stuzzicante. L’America è
nelle fasi conclusive di una campagna elettorale, la tensione con la Russia risale
impetuosamente, l’allarme che essa suscita contende le prime “pagine” all’esplosione
della narrativa sulle maldestre prodezze di Donald Trump, teoricamente ancora
candidato alle elezioni fra un mese, ma oggi soprattutto bersaglio degli strali
di un’America che non sopporta più certi comportamenti “sessisti”, gli
editoriali sparano a raffica su un candidato politicamente moribondo, le
cronache raccolgono i dettagli delle sue malefatte. A quella signora, se i suoi
ricordi sono ancora precisi, egli “cercò di far scivolare le dita sotto la
gonna. Era come un polipo. A un’altra di un quarto di secolo dopo
l’imprenditore non più giovane “palpò il sedere”. Una terza la baciò sulle
guance “e quindi puntò direttamente alla bocca”.
Le conseguenze sono giunte rapide e
non si fermano. L’America femminista è balzata in piedi, sferzata da giusta
indignazione, ulteriormente riscaldata dalla presenza come candidato opposto a
quel Trump di Hillary Clinton, che non solo è una donna ma che si è presentata
con uno slogan tenero e orgoglioso: “Io sono la figlia di una mamma e la mamma
di una figlia”. L’elettorato risponde. Hillary ha accumulato nei sondaggi nove
punti di vantaggio nel “voto popolare”. Le donne le danno un margine
addirittura del 15 per cento. Trump è in testa fra gli uomini, ma solo del 5
per cento. Ancor più chiaramente: se votassero solo i “lui” il candidato
repubblicano prevarrebbe nettamente con 350 voti elettorali contro 188 della
democratica. Ma se votassero solo le donne per lei sarebbe un plebiscito: 458
contro 80. Manca un mese, un dibattito, complicati e lugubri pronostici
riguardano il Partito repubblicano nel suo complesso.
Ma nella campagna elettorale è
entrato un fattore assai diverso e lontano dai “maschilismi” cafoni e dalle
denunce un po’ ritardate. È la politica estera. L’elezione della Clinton è data
ormai per scontata anche in Russia, dove provoca reazioni e addirittura
brividi. A ragione o a torto l’ex First Lady e soprattutto la ex Segretaria di
Stato è considerata un “falco”, in molti scacchieri mondiali ma soprattutto in
quello che oggi già scotta assai: il Medio Oriente. La tensione russo-americana
si è accesa già da tempo e trova diversi scacchieri su cui estendersi: dalla
sospensione del dialogo per il disarmo nucleare, alle sanzioni economiche sancite
per punire Putin delle sue reazioni agli eventi in Ucraina, ad altri “castighi”
per leggi persecutorie contro gli omosessuali. Ma il teatro vero di scontro è
appunto il mondo arabo. Principalmente la Siria. Più acutamente Aleppo, ma in
realtà quella guerra è in corso da cinque anni e ha fatto duecentomila morti:
non tutti nel quartiere Est di Aleppo, non tutti bambini. In una guerra civile non
sparano solo da una parte, le bombe uccidono ovunque e chiunque. I Paesi
stranieri che in qualche modo vi interferiscono sono numerosi: non sono la
Russia e l’America ma anche, per esempio, la Turchia e, soprattutto nella fase
iniziale, la Francia. È un conflitto più assurdo di molti altri ma non unico.
Ha delle risonanze nei Paesi vicini, dall’Irak dove sono gli americani a
difendere anche con le armi il debole governo legale dagli assalti dei
jihadisti timbrati Isis o Al Qaida, allo Yemen, dove l’aviazione saudita da
aerei made in Usa sgancia bombe (pare made in Italy) su postazioni di ribelli
sciiti a un regime sunnita. Una situazione che ha fatto precipitare in America le
residue simpatie per Vladimir Putin e ha visto i repubblicani cedere il primato
di “falchi” ai democratici, già un po’ diversi da quelli alla Obama. I russi
esagerano, muovono truppe, preparano addirittura razionamenti. Putin si
potrebbe tranquillizzare se devolvesse un po’ di attenzione dagli sguardi
puntuti di Hillary ai resoconti delle signore e signorine vittime delle
lussurie trumpiane.