Alberto Pasolini Zanelli
Continuano ad incontrarsi e a
contraddirsi le reazioni del pubblico americano alle ultime iniziative di
Donald Trump e alle loro ripercussioni internazionali. In primo luogo nelle
critiche sono i rapporti personali fra il presidente degli Stati Uniti e il suo
collega russo Vladimir Putin. Le più accese continuano ad essere le reazioni
non solo all’andamento dei colloqui fra i due leader, giudicato da molti
“troppo confidenziale”, ma anche alle ultime dichiarazioni di Trump su problemi
e iniziative estranee al nocciolo dei nuovi equilibri in un clima da nostalgici
della Guerra Fredda, ma anche a problemi locali e certamente molto distanti
dall’opportunità di continuare a condurre e a proporre summit su angoli del
mondo che non hanno finora la stessa storia postbellica di certe zone, dal
Medio Oriente a nuovi focolai di violenze e guerre.
Il capitolo più nuovo riguarda il
più europeo fra quelli posti in primo piano e anche il più piccolo. Riguarda il
Montenegro, uno dei tanti pezzetti sorti dopo il crollo della Jugoslavia, che negli
ultimi giorni ha finalmente riallacciato i rapporti diplomatici con la Serbia e
contemporaneamente ha portato avanti il suo progetto di aderire alla Nato. La Casa
Bianca ha invitato alla prudenza e Trump ha colto l’occasione per rilanciare il
suo recente monito inteso a limitare i doveri degli alleati europei ma dunque
anche dell’America. L’Alleanza atlantica dovrebbe, secondo Trump, limitarsi a
garantire aiuti militari nel caso in cui i Paesi che si trovassero in una
situazione simile a quella montenegrina non dovrebbero obbligatoriamente
seguire la formula della Nato di “blocco contro blocco” bensì limitarsi a
proteggere, nel caso del Montenegro ma non soltanto, un Paese vittima di una
aggressione militare.
Non si conosce la reazione di Putin
(che Trump ha ormai l’abitudine di consultare prima di prendere decisioni
importanti), ma è già arrivata quella americana, particolarmente energica ma
non globale. I democratici sono ovviamente contrari, come è nelle loro
tradizioni. Ci si attendeva però un peggioramento anche nel Partito
repubblicano, quello che grazie a Trump occupa in questo momento la Casa Bianca
ma che contiene “aree” di crescente dissidenza.
Ma non così compatta come si
prevedeva in questi giorni che hanno visto scelte molto discusse da parte della
Casa Bianca. La presenza sempre più vigorosa delle critiche anche in politica
estera ha incontrato proprio ora la smentita alla domanda se quegli elettori
approvino o disapprovino i tempi e i modi dei meeting con Putin e in generale
la diplomazia di Mosca: solo il 21 per cento dei simpatizzanti repubblicani ha
dichiarato di dissentire dalla linea della Casa Bianca, ma il 68 per cento
invece l’approva. Analogo l’esito di un altro confronto, questa volta interno e
riguardante lo scontro in atto fra il presidente e in genere i media. Solo il
14 per cento che difende giornali e televisione, mentre il 77 per cento dà
ragione a Trump. Ancora più netto il risultato alla domanda sull’eventualità di
un impeachment, e cioè la defenestrazione dell’uomo della Casa Bianca,
sull’esempio del “referendum” che obbligò a lasciare nel 1972 un altro
presidente repubblicano, Richard Nixon. Favorevoli sono solo nove interrogati
su cento, contrari l’89. Più interessante il dato che riguarda i democratici.
Esso è considerato in aumento, non in tutto e neppure forse in risposta alla
domanda simbolica: se Trump abbia “esagerato” nei “vertici” con Putin. Il
dibattito è in corso, ma fino a questo momento l’opposizione si guarda da
insistere nei toni e rischia di allargare il giudizio negativo a tutte le
iniziative di distensione, al limite anche dalle iniziative di Ronald Reagan
coronate dalla fine della Guerra Fredda e dal crollo dell’Unione Sovietica.
Non bisogna però credere che i
risultati dei referendum corrispondano all’esito del voto che si prepara per
novembre per l’elezione del Senato e della Camera. In questo caso si tratta
infatti di scontro diretto fra i candidati e non di un referendum globale. I
democratici appaiono in netta crescita, anche per l’infusione di esponenti
nuovi e generalmente più a sinistra delle ultime versioni, compreso lo scontro
di due anni fa fra Trump e Hillary Clinton. I democratici sperano ora di
guadagnare voti decisivi grazie a un rinnovamento dei candidati e del linguaggio,
quest’ultimo in modo analogo a quello scelto grazie alla candidatura di Barack
Obama.