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I suoi due ruoli, politici e caratteriali.....


Alberto Pasolini Zanelli

Nelle ultime quarantott’ore il presidente americano è stato, presumibilmente, costretto a giocare una volta di più i suoi due ruoli, politici e caratteriali. Con qualche differenza rispetto al solito: è stato più moderato nei toni e più concreto nella sostanza delle sue iniziative e delle sue parole. In altri termini ha giocato sulla difensiva, che non è il suo ruolo più goduto. Ha insistito nell’iniziativa di scelta del nuovo presidente della Corte Suprema, cercando e a quanto pare trovando almeno due candidati adatti e uno addirittura raccomandabile.

All’opinione pubblica internazionale questa scelta può non dire troppo, ma l’opinione pubblica americana ha capito l’importanza della decisione, che può essere fondamentale ai fini della strategia della Casa Bianca, che nell’ultimo paio di settimane si è rivelata più difensiva rispetto allo stile solito e alle scelte di Donald Trump. La Corte Suprema è relativamente nota e valutata all’estero ma nella complessa struttura del potere americano rappresenta una linea fondamentale di garanzia e di difesa per un presidente criticato e criticabile come Trump. Gli garantisce infatti che dal massimo organo giuridico gli possa venire un attacco diretto e a breve scadenza che potrebbe far traballare davvero la sua poltrona di potere. Continua infatti l’inchiesta (anzi, le varie inchieste) che nominalmente si riferiscono agli insistenti attacchi, in corso ormai da due anni, per le supposte “trame segrete” fra il potere russo e la campagna elettorale repubblicana.

Molte accuse, nessuna del tutto convincente. Potrebbe essere l’occasione, se non addirittura la necessità, che a decidere sia la Corte Suprema: nove membri, di cui fino a ieri quattro democratici, altrettanti repubblicani e un “centrista”, in realtà un indipendente il cui quinto voto potrebbe essere decisivo. Poi l’“uomo chiave” ha deciso di dimettersi, scaricando così la decisione sulla Casa Bianca prima e poi sulla ratifica del Congresso. Trump ha fatto sapere quasi subito le sue preferenze e così oggi è giunto il momento di concretizzare questa scelta. Che sarebbe comunque un successo, sia a distanza, sia nell’immediato o addirittura in anticipo.

Trump ha ottenuto negli ultimi mesi parecchi successi, di sostanza e soprattutto psicologici, che gli hanno permesso di fronteggiare una situazione in sé delicata e difficile. La sua vittoria nel novembre del 2016 è stata una sorpresa e anche un enigma. I suoi programmi non apparivano così appetibili, le sue prime decisioni produssero essenzialmente stupore. Con il tempo vennero comprese, come parte essenziale di una strategia inusuale, soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra le promesse e le decisioni. Come candidato Trump è stato combattivo, audace, discusso e sorprendente, pieno di promesse in cui ben pochi credevano, soprattutto nel Partito repubblicano. Ma poi si è visto che più che all’approvazione del Congresso e dell’opinione pubblica Trump mirava a continuare a mantenere l’offensiva, preoccupandosi di più della sua popolarità di base nei settori meno preparati dell’elettorato. Finora ha funzionato, ma ancora più efficace è stata l’altra branca della strategia: ad ogni sconfitta o gesto impopolare Trump non ha risposto difendendo quest’ultimo, bensì cambiando immediatamente argomento e tirando fuori dal cassetto argomenti e promesse che stavano per essere dimenticati. Reazioni formulate e rese pubbliche in pochi giorni o addirittura in poche ore, cancellando in gran parte le delusioni in altri terreni. Una scelta impopolare in campo economico, ad esempio, veniva immediatamente “ricoperta” da una iniziativa coraggiosa e popolare nella politica estera o in altri campi. Trump ha capito subito che cambiare argomento è la forma più efficace e innovativa di governare, curandosi della reazione di un coltivatore del Nebraska che non dei giudizi elaborati fra Washington e New York. Ma anche delle reazioni fuori dai confini. L’ultimo esempio è di pochi giorni, quasi ore. Il governo della Corea del Nord, lusingato per lunghe settimane da promesse e proposte inattese e senza precedenti, ha fatto o promesso a sua volte concessioni da mettere sul tavolo al prossimo “vertice” fra i due Paesi. Ma non ha risposto in modo previsto: da Pyongyang sono venuti bilanci “vittoriosi” ma anche un ritorno al vocabolario dei giorni peggiori della Guerra Fredda. L’ultimo definisce più o meno marcia e ripugnante la strategia diplomatica americana. Un altro presidente, o un altro Paese, avrebbe reagito a sua volta con parole severe o addirittura triviali. Gli Stati Uniti di Trump hanno quasi ignorato le ingiurie e risposto parlando d’altro. Ai coreani del Nord e agli americani.

Pasolini.zanelli@gmail.com