Alberto Pasolini Zanelli
“Non ci siamo capiti”. “Mi sono
spiegato male”. “Volevo dire il contrario”. Donald Trump è andato avanti così
per buona parte della giornata successiva a quella in cui aveva esposto con
fermezza e chiarezza la sua posizione sugli scandali di spionaggio attribuito
alla Russia e sulle intenzioni della Casa Bianca passato l’intervallo del
dialogo con il Cremlino, deve adesso cercare di riconciliarsi in qualche modo
con l’establishment politico e militare Usa. Non è detto che ci riesca.
L’opposizione, anzi le opposizioni, non lasceranno perdere la preziosa
occasione di dimostrare una volta di più che questo presidente degli Stati
Uniti è dedito alle gaffe e alle interpretazioni oscillanti dei rapporti fra le
due Superpotenze e in generale della situazione politico-militare del pianeta. Nel
vertice di Helsinki con Vladimir Putin aveva dipinto una situazione opposta e
falsamente ottimista. Adesso corregge il testo, ma non capovolge, almeno in
apparenza, i suoi umori.
Una volta di più ha rischiato ed è
stato inciampato dai suoi eccessi polemici. Gli avversari politici non
aspettavano altro a proposito del vertice con Putin, Trump ha spiegato,
appunto, che si era ispirato nella scelta delle parole, in particolare con una
parola mancante. Di fronte a Putin aveva detto di “non vedere motivi per cui
delle operazioni di spionaggio politico durante le elezioni Usa dovessero
essere si dovesse incolpare Mosca. Voleva dire “Perché non possa essere stata
la Russia”. I suoi nemici interni continuano invece ad essere sicuri che lui
aveva detto proprio così per far piacere a Putin che gli sedeva accanto. Adesso
arrivano le scuse, rivolte alle persone e ai circoli su cui si erano abbattute
le sue polemiche. Adesso il presidente dice che può essere stato chiunque,
compresa la Russia, incluso il possibile suo nuovo spione: una giovane donna
che risiede negli Stati Uniti da anni, “per imparare”. Trattata finora con
cortesia, adesso è interrogata dal controspionaggio e probabilmente presto
dalla Commissione speciale di inchiesta, nelle cui stanze è entrata ieri la
parola “tradimento”. Anche i colleghi repubblicani di Trump dicono ora che
“l’argine è crollato”, compresa Jeane Kirkpatrick, stretta collaboratrice di
Ronald Reagan ai suoi tempi e suo ambasciatore all’Onu, ricordata fra l’altro
per una sua frase in polemica con le allora “colombe” dell’opposizione
democratica: “Danno sempre la colpa all’America”.
Il nuovo slogan mira ai
repubblicani che “stanno cambiando bandiera” e parlano dei propri colleghi come
di “repubblicani alla Helsinki”. Fra questi, i tre intellettuali conservatori
più noti, come David Brooks, che parla di “omicidio-suicidio dell’Occidente. E
soprattutto dell’America che all’Europa deve moltissimo. La democrazia è nata
in Grecia e in Gran Bretagna. Le università sono nate in Italia e fiorite in
Germania. Dal suolo americano potrà nascere una nuova generazione di
Shakespeare, Dante e Cicerone”. Fa eccezione anche il leader del movimento
libertario Rand Paul. Prevalgono, oltre alle polemiche, le previsioni tipo
“Trump non sarà il primo a colare a picco per avere giocato con la Russia e
soprattutto con Putin, premiato dai compatrioti per la sua “vittoria” nel
vertice di Helsinki, dove ha ottenuto da Trump un linguaggio da “nemico della
Nato e dell’Europa”, la quale ha già cominciato a cercarsi “soci” nuovi e
alternativi, per adesso dal Giappone per quanto riguarda gli scambi economici.
In casa l’opposizione democratica fa il suo mestiere di opposizione e si
impegna nella strategia di “capitalizzare” sugli “errori” di Trump. E sulle sue
autocorrezioni. Da Helsinki a Canossa.