Brexit: una tragicommedia provocata dall’assenza di leadership
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
Il processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea prosegue con colpi di scena così imprevisti che si è ormai trasformato in una tragicommedia. Cominciato nel giugno 2016 sta durando all’infinito non solo per una sua oggettiva complicazione ma soprattutto perché la trattativa, già di per se stessa difficile, è stata resa quasi impossibile dalle divisioni interne della politica britannica. Divisioni che hanno attraversato entrambi i partiti. Sia nel campo dei conservatori che in quello dei laburisti si è combattuto non solo fra i sostenitori della permanenza e coloro che vogliono uscire dall’Unione: i fautori della Brexit sono infatti ferocemente divisi fra coloro che premono per un’uscita “dura”, cioè senza condizioni, e coloro che si schierano per un’uscita “morbida”, cioè frutto di un’intesa fra le parti.
Si era anche arrivati ad un faticoso accordo fra il governo della Signora May e i negoziatori europei, ma esso è stato respinto per ben due volte, con larghissima maggioranza, dal Parlamento britannico. Nei giorni scorsi si è addirittura evitata una terza votazione solo perché il Presidente del Parlamento, basandosi su una legge risalente al 1604, si è opposto ad un ulteriore voto, dato che il testo presentato era troppo simile a quello bocciato in precedenza. Poiché il 29 marzo, data in cui dovrebbe essere presa la decisione definitiva, si stava troppo avvicinando, la Premier britannica ha chiesto un rinvio al 30 giugno, data che ha messo tutti in imbarazzo in quanto successiva alle elezioni europee. Giovedì scorso si è quindi svolto l’ennesimo vertice europeo, in un’atmosfera ormai stanca per un dibattito che si protrae da oltre mille giorni in attesa dell’ennesimo voto del Parlamento di Londra in calendario per la prossima settimana.
Nelle sei ore di discussione del Consiglio Europeo sono emerse diverse posizioni. Dalla linea più dura di Francia e Belgio ad una posizione opposta di Polonia e Portogallo, paesi molto legati da un rapporto stretto con il Regno Unito. La Germania, in posizione intermedia, ha fatto prevalere la sua mediazione, in favore della quale sembra essersi saggiamente schierata anche l’Italia.
Il compromesso consiste nel pazientare (questa è la parola giusta per descrivere l’atmosfera prevalente nel Consiglio europeo) fino al 22 maggio, cioè fino alla vigilia delle elezioni europee. Questo, naturalmente, nel caso in cui il Parlamento britannico approvi l’accordo. In caso contrario il termine sarebbe evidentemente anticipato al 12 aprile, ultimo limite per un’eventuale partecipazione britannica alle elezioni europee. Entro questa data si dovrebbe perciò di nuovo riunire il consiglio Europeo per prendere la decisione definitiva. Si tratta di una conclusione equilibrata: detta le regole per un eventuale recesso ordinato ma, nello stesso tempo, scarica giustamente sul Regno Unito la responsabilità di una rottura senza accordo. Un esito che nessun paese europeo vuole ma che sarebbe inevitabile nel caso in cui il Parlamento britannico ribadisse il suo voto negativo e venisse confermata la decisione di Londra di non partecipare alle elezioni europee.
Nel frattempo i danni che già si fanno sentire nell’economia britannica e le incertezze di questa trattativa senza fine hanno spinto gli avversari della Brexit a indire un appello in favore della permanenza nell’Unione, appello che ha già raccolto oltre tre milioni e mezzo di adesioni. A questo si è aggiunta ieri un’imponente manifestazione popolare che ha richiesto a gran voce la ripetizione del referendum.
Una tesi che raccoglie un consenso sempre maggiore ma che sembra difficile da mettere in atto anche perché recentemente respinta a grandissima maggioranza dal parlamento di Westminster. Penso quindi che queste manifestazioni di volontà popolare non arriveranno a nessun risultato, come credo non abbia alcuna sostanziale influenza la ben nota posizione dell’amministrazione Trump, sempre favorevole ad una rottura dell’Unione.
Questa decisione di così grande importanza rimane quindi affidata all’estremo tentativo della signora May di salvare il suo posto di primo ministro e ai complicati e meschini giochi delle correnti di entrambi i due maggiori partiti politici per meglio posizionarsi in vista delle future elezioni. Se tutto questo fosse accaduto in Italia chissà che cosa si sarebbe detto. Essendo questo caos avvenuto in Gran Bretagna ci limitiamo ad osservare che, quando manca una leadership, nemmeno molti secoli di democrazia sembrano in grado di sottomettere gli interessi di parte agli obiettivi generali del Paese.