Alberto Pasolini Zanelli
Il mondo politico americano si
aspetta una “soluzione” a brevissima scadenza: un paio di giorni, al massimo la
prossima settimana. È attesa da lunghi mesi ed è incarnata da Mueller, che
dovrebbe finalmente pubblicare i risultati della sua interminabile inchiesta
sulle responsabilità e sulle accuse di ogni genere alzate contro Donald Trump. Una
delle ipotesi disegnate da tempo, se il giudizio fosse molto duro, si aprirebbe
la strada dell’impeachment, destinata
però a durare anch’essa e il cui esito sarebbe tutt’altro che certo: il
meccanismo prevede infatti che il documento d’accusa debba essere compilato
dalla Camera (cosa praticamente certa, dal momento che questo ramo del
Parlamento ha una maggioranza democratica ed è presieduto da Nancy Pelosi, la
donna politica più esperta d’America), ma la sentenza vera e propria spetta al
Senato dove sopravvive una ristretta maggioranza repubblicana. Ma non è detto
che il giudizio di Mueller sia così chiaro o unilaterale e nell’attesa, di
giorno in giorno e di ora in ora, si approfondiscono le “scissioni” all’interno
di entrambi i partiti: i repubblicani divisi fra il risentimento per la cattiva
conduzione della Casa Bianca e la necessità di un appoggio di Trump nelle
rispettive gare per i seggi parlamentari e fra i democratici a causa del numero
senza precedenti di aspiranti alla Casa Bianca (sono già più di venti, se ne
presenta uno nuovo quasi quotidianamente) e l’ondata a sinistra che rischia di
far perdere al partito milioni di voti moderati.
Adesso si presenta una alternativa,
addirittura in anticipo sul verdetto del “tribunale”. È un democratico che
annuncia non la propria decisione di scendere in gara, bensì quella contraria:
non concorrerà alla Casa Bianca. Non perché manchino le condizioni, l’esperienza
e i mezzi finanziari. Michael Bloomberg ha partecipato a campagne elettorali
sia come democratico, sia come repubblicano e le ha vinte tutte, è stato per
otto anni sindaco di New York con straordinario successo ed è uno dei “supermiliardari”
americani. Fino a qualche tempo fa era ufficialmente indipendente, da qualche
anno è integrato nel Partito democratico e ne condivide le impostazioni tradizionali
e, ancor di più, la fiera ostilità a Trump. Come gli altri venti e passa
politici che sono scesi in gara con quasi due anni di anticipo sulle elezioni
presidenziali del 2020. Dopo aver riflettuto, però, ne ha tratto la conclusione
opposta: ha rinunciato alla candidatura ritenendo e proclamando che quella è la
soluzione più fruttifera per il partito e potenzialmente letale per le
ambizioni ulteriori di Trump. La sua scelta è senza precedenti e riprende la
sua forza politica e finanziaria e le differenze della sua impostazione. Bloomberg
condivide l’intransigenza e l’astio di quasi tutti i democratici nei confronti
dell’attuale inquilino della Casa Bianca: per come sta conducendo la Superpotenza,
per come ha guidato la sua vittoriosa campagna elettorale, per come, in
sostanza, ha condotto tutta la sua carriera. Anche Bloomberg ritiene che la
presidenza debba essere “liberata” da Trump, ma non per sete di vendetta e non
con mezzi extraparlamentari, bensì con una strategia intrinsecamente politica e
che eviti le possibili avarie che già si stanno presentando.
I problemi dei democratici
assomigliano “tecnicamente” a quelli del partito di Trump: le sue azioni e le
sue parole incontrano vaste critiche fra i repubblicani (alcuni dei quali, ed è
l’ultimo esempio, sembrano decisi a votargli contro in Senato annullando il suo
decreto di emergenza emesso per salvare il suo progetto di innalzamento di un muro
anti immigrati alla frontiera con il Messico). Le residue incertezze riguardano
però la futura campagna elettorale. Per difendere o recuperare la fedeltà dei
suoi compagni di partito, il presidente ha fatto sapere che iscriverà i
dissidenti in una “lista nera”, con cui regolare i conti nel 2020. Ma i
democratici corrono il rischio opposto: sono arcicompatti contro Trump ma sono
in troppi ad ambirne la successione. Più di venti finora, altri in arrivo. Tanti
nuovi, tante donne, tanti appartenenti a delle minoranze razziali, tanti di
sinistra, cioè di una sinistra “all’europea” in campo economico, finanziario e
sociale. La lotta per la candidatura sarà fiera, soprattutto per il pericolo che
prevalga una sinistra estranea alle tradizioni americane, che porterebbe alla
defezione di milioni di elettori e dunque alla rielezione di Trump. Hanno
annunciato le proprie ambizioni anche molti democratici “moderati”, ma anche in
questo caso troppi, fra cui Joe Biden, il vicepresidente di Obama, che è in
testa nei prematuri sondaggi. Bloomberg era convinto di poter far meglio, ma ha
fatto i conti e ha fatto una scelta senza precedenti: non si candiderà, ma si impegnerà
a fondo con tutte le sue “armi” per rafforzare il Partito democratico e
soprattutto quello che sarà il suo candidato alla Casa Bianca, se moderato. Ci metterà
dentro la sua esperienza ma soprattutto i suoi impareggiabili mezzi finanziari.
Bloomberg è uno di quei supermiliardari di cui in questo tempo si parla. La sua
“candidatura” non si basa su programmi ma su una offerta: democratici, se
sceglierete un politico tradizionale (e ha fatto il nome di Biden) io lo
spingerò con tutta la mia forza. Per dare addosso a Trump.