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Una tragica testimonianza dell’oggi


Alberto Pasolini Zanelli

Un ritratto angoscioso del domani. Una testimonianza di un sogno che è stato realtà fino a ieri. Sono tutte espressioni pensabili di reazioni giustificabili alla tragedia che ha colpito l’angolo della Terra dove ciò era più solidamente impossibile. La Nuova Zelanda. Un domani che lì sarebbe stato addirittura impensabile: l’ultimo balzo in avanti della tecnologia, la possibilità di inscenare una strage prima di commetterla, collegandola su Internet. Un presente che fa a pugni con la geografia e non pare avere contatti con la Storia. Un eccidio alla Bin Laden con i musulmani come vittime e con metodi e mezzi di un altro mondo e di un’altra epoca. Se ne sono accorti tutti subito, con l’aiuto dell’esperienza e dei residui di memoria storica. Poteva succedere ovunque, ma non in Nuova Zelanda, una patria recente e di sapore antico, una terra che esclude in modo addirittura bellicoso il morbo nucleare. Il cui monumento bellico più rispettato è il Nga Toki Ratawhaorua, la più grande piroga da guerra costruita dagli indigeni Maori ed esposta in un museo, che può contenere ottanta rematori e settanta combattenti. Un modello di un passato che appare inconciliabile con l’oggi.

La Nuova Zelanda che conosciamo è un Paese recisamente bianco, essenzialmente britannico, deliziosamente coloniale, dal tenore di vita elevatissimo e molto ben distribuito grazie a una tradizione politica delicatamente egualitaria. Chi voglia ammirare i capolavori del museo del Welfare State, deve cercarli laggiù, non più neppure in Scandinavia. È a Wellington, la capitale, o a Auckland, la città della strage. Si trovano nell’unico Paese al mondo in cui chiunque, cittadino o turista di passaggio, è totalmente e gratuitamente assicurato contro ogni genere di infortunio. Automaticamente: le leggi neozelandesi non contemplano le cause civili per danni. Negli incidenti non ci sono responsabilità da accertare, ma solo vittime da indennizzare. E non è un esempio isolato, ma una pagina in una storia di primati: il voto alle donne già nel 1893, la pensione di vecchiaia nel 1898. Fino a trent’anni fa, il neozelandese poteva contare sulla vita media più lunga del mondo e anche adesso è fra le prime. È stato cittadino di uno dei cinque Paesi più ricchi del pianeta e adesso è tuttora fra i primi. Ha un vicino, l’Australia, da cui è venuto l’autore della strage di oggi e una patria, a Londra. A 20mila chilometri di distanza, la Nuova Zelanda non ha mai smesso di essere prettamente europea. Lontana dal mondo, affacciata all’Antartide, nella Prima guerra mondiale si svenò nelle trincee sotto la Union Jack, nella Seconda mandò i suoi ragazzi a battersi contro gli italiani a Tobruk e a dar la caccia a Rommel. I neozelandesi proteggevano Londra e l’impero. Il primo neozelandese che conobbi da bambino mi raccontò che aveva in patria una sorellina in carrozzella senza speranza di imparare a camminare e mi pregò di scriverle un bigliettino in modo che lei potesse avere un amico coetaneo e lontano. Quando gli Stati Uniti si sostituirono ovunque nel mondo alla esausta Albione, qui continuò a scattare la solidarietà automatica dell’uomo bianco di lingua inglese, dalla Corea al Vietnam; e fu allora che i neozelandesi vennero per la prima volta veramente a contatto con il Pacifico, che prima era soltanto un’anonima distanza fra gli allevamenti e i mercati, e con l’Asia, nei confronti della quale era valsa una sola legge: il divieto assoluto dell’immigrazione di gente di colore. Questo Eden era anche una Arcadia qualificata: bianca, anglosassone, protestante. Non praticò mai un razzismo aggressivo, come dimostra la sopravvivenza, ora enfatizzata, dei Maori, a confronto del quasi totale sterminio degli aborigeni in Australia. Adesso i neozelandesi “scoprono” il Pacifico.

In questo paradiso è entrato ora con l’immigrazione da tutto il resto del mondo, il morbo del razzismo, che cresce con la vicinanza e con la Storia stretta. Che proprio qui nascesse un Bin Laden alla rovescia era, appunto, impensabile, assieme a tante cose anche innocenti. Quello di Wellington è probabilmente il Parlamento più piccolo e “confidenziale” del mondo. L’aura entrerebbe più volte in una modesta anticamera di Palazzo Borbone. Perfino le spoglie assemblee dello Sporting di Oslo o del Folketing di Copenaghen tradiscono al confronto pompe imperiali. I deputati – meno di cento in tutto – stanno in banchi a due come un tempo gli alunni della Quinta C. hanno in comunque piccoli banchi in compensato, da allievi delle “tecniche” e siedono su divanetti con un bracciolo centrale tipo auto, abbassabile in caso di screzi tra le correnti politiche. Il giorno che l’ho visitato una deputata aveva tentato di ingentilire il proprio mezzo divano stendendoci sopra una pelle di pecora pezzata. Tiene caldo ed è patriottica: la Nuova Zelanda ha ottanta pecore per ogni abitante e vive esportando pelle e carne. Come a Westminster, non c’è emiciclo: destra e sinistra si fronteggiano, separate solo da un tavolo pieno di carte e preceduto da un silenzioso segretario in parrucca. Ci posano sopra anche una caraffa d’acqua e qualche bicchiere. Gli uscieri (due in tutto nel palazzo) non rendono questi piccoli servizi: se un oratore ha la gola secca, si alza e si prende da bere. Ci sono bicchieri per la destra e per la sinistra, ma la caraffa è unica. In tribuna si entra senza controlli, sulla parola. Ci ero andato per intervistare l’allora leader dell’opposizione, non ho dovuto mostrare documenti e neppure spiegare cosa volevo. Mi hanno detto di entrare da quella certa porta sempre aperta per tutti. In questo Parlamento discuteranno a lungo parlamentari increduli come tutti i loro compatrioti. Cercheranno di contenere il brivido che gli ha dato l’essere per un momento patria di un pianeta dove certe cose accadono.