Alberto
Pasolini Zanelli
È una novità per
gli americani e un po’ meno, forse, anche per lui. Donald Trump non è sul punto
di sgombrare dalla Casa Bianca. Probabilmente non lo è mai stato, ma in certe
fasi postelettorali il cumulo e il vigore dei giudizi negativi è parso a molti
che la sua Casa Bianca tremasse dalle fondamenta. Lui ha reagito alla Trump,
cioè con parole forti e i gesti significativi anche se non eleganti. Più lo
criticavano, più li mandava al diavolo. Quando gli avversari accumulano anche i
dati, lui non li contesta: scarica sui telespettatori una raffica di altri
numeri su altri problemi. Non ce ne sono molti a confortarlo, ma quelli che ci
sono, sono importanti e si chiamano “economia”. Non c’è niente di nuovo, ma l’occupazione
cresce e dunque il numero dei disoccupati continua a calare. Dopotutto per la
gente della strada quello è il dato di più immediata risonanza.
Se qualcosa è
cambiato, non lo è in questo elementare angolo del quadro politico Usa. Lo è
forse in un altro di minor risonanza per le masse, ma da mesi fin troppo
insistito sui mass media: i processi ai suoi collaboratori. Indagini che sono
parse eterne, stanno arrivando le sentenze che sono contraddittorie. Se il
braccio destro di Trump è stato Cohen, su cui incombe una condanna a più di
vent’anni di carcere, allora il presidente dovrebbe preoccuparsi. Ma se invece
si guarda al processo del suo più sospettato collaboratore, Paul Manafort,
tutto sarebbe molto più semplice: quattro anni di carcere al massimo. E quest’ultimo
ha in gran parte difeso Trump, mentre l’altro ha scaricato dati inquietanti su
di lui. Adesso si aspetta, anzi si continua ad aspettare da mesi, il giudizio
della commissione speciale e del suo presidente Robert Muller. Potrà essere una
via di mezzo?
C’è qualcuno che
però ne ha tratto conseguenze provvisorie ma sensate. È niente di meno il
leader attuale di fatto dell’opposizione democratica, il presidente della
Camera Nancy Pelosi, che ha portato in superficie una riflessione che altri
coltivavano in profondità. E continuavano a fingere di aspettare l’impeachment: Trump come Nixon e, in
parte, come Clinton. È la via di emergenza per i presidenti che non funzionano:
Nixon si dovette dimettere, Clinton fu salvato dai democratici in Senato. Questa
volta la Camera a larga maggioranza democratica potrebbe “condannarlo”, ma il
Senato, strettamente repubblicano, può darsi che lo assolva.
Nancy Pelosi ha
riflettuto e ha emesso le parole del buon senso: non dobbiamo cercare di mettere
in stato di accusa Trump, almeno per ora. L’anno prossimo ci sono le nuove
elezioni per la Casa Bianca, dobbiamo batterlo e mandarlo via con i mezzi
normali. Sempre che non vengano fuori fatti nuovi veramente gravi. Quello che
Nancy non ha detto, è che finora le strade per l’impeachment hanno riguardato la moralità, soprattutto fiscale, del
presidente, ma anche vizietti privati come la frequentazione di prostitute. Cose
non abbastanza gravi, secondo il buon senso tipico della Pelosi. Il cui
intervento potrebbe per ora rimettere nel cassetto l’impeachment e far sì che i politici americani riprendano a parlare
di politica.
In questo campo ci
sono novità positive e negative, ma soprattutto dati incerti. A favore di Trump
milita, come sempre, l’economia. Anche se lui comprensibilmente esagera nell’esaltarne
i “miracoli”, resta il fatto che l’America si è ripresa dagli ultimi scampoli
della Grande Recessione del 2008, a vantaggio sia di una parte del ceto medio,
sia della “crosta” dei supermiliardari. Un bilancio così è un sogno per ogni inquilino
della Casa Bianca, compresi i meno felici come Trump, che continua ad assorbire
critiche in altri settori, inclusa la politica estera. Non piace il suo
apparente affetto per il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, lasciano perplessi
le sue decisioni di ritirare truppe dalla Siria o dall’Afghanistan, incontrano
disapprovazione le sue cancellazioni unilaterali di trattati, economici,
politici e militari con i vecchi alleati, soprattutto in Europa, inquietudini
sul Venezuela e sull’atteggiamento sempre duro verso l’Iran.
Una delle critiche
più severe in questo campo è venuta da un personaggio repubblicano di rilievo, Dick
Cheney, già vicepresidente durante gli anni di George W. Bush e considerato un “falco”.
In un dibattito con il “vice” attuale, Mike Pence. La politica estera di Cheney
assomiglia più a quella di Obama che a quella di Reagan, che ovviamente è l’esempio
più luminoso per i repubblicani. Questo presidente non lo dice ma è un
isolazionista. Ha poca competenza negli affari internazionali e diffida degli
specialisti. Il suo comportamento, insomma, “assomiglia di più a quello di un
costruttore edile di New York che non al presidente degli Stati Uniti e al
leader del mondo libero”.
Così i discorsi. Le
cifre non parlano molto diversamente. L’ultimo sondaggio sulla popolarità di Trump
rileva una parità fra i sì e i no soltanto nell’economia. Negativo è il
bilancio della percezione della “onestà” di Trump (40 sì, 56 no) e soprattutto,
in modo inquietante, della sua “salute mentale” (29 sì, 67 no). La “pagella”
globale è più equilibrata: segnala un 38 per cento di approvazione popolare,
contro un 60 per cento di critica. Va ricordato che Trump rimase sotto il 50
per cento (47 contro il 50 di Hillary Clinton) perfino il giorno in cui fu
eletto.