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È in ritardo, ma contemporaneamente in anticipo


Alberto Pasolini Zanelli

È in ritardo, ma contemporaneamente in anticipo, la contesa per la Casa Bianca. In parte per abitudine: gli americani amano che le loro campagne elettorali durino a lungo, probabilmente allo scopo di dare tempo all’elettore per farsi un’idea e maturare una scelta. È per questo che la Casa Bianca avrà il nuovo inquilino nel gennaio del 2021, anche se sarà scelto il primo martedì del novembre del 2020 e dopo che i due partiti dovranno decidersi con diversi mesi di ulteriore anticipo per scegliere i rispettivi candidati, alla presidenza e anche a centinaia o migliaia di cariche minori. È così ogni quattro anni, ma questa volta ci sono situazioni che portano i protagonisti a comportarsi in modo diverso. La regola è prima una gara fra un paio di aspiranti repubblicani e un altro paio di democratici: una sorta di “semifinali”. Quest’anno non è così: i repubblicani il loro candidato ce l’hanno da anni, da quando lo hanno eletto nel 2016. Donald Trump è emerso a sorpresa, è arrivato alla vittoria accompagnato da circostanze tutt’altro che usuali. Basta ricordare che egli non è il candidato che ha preso più voti di tutti: ha incassato tre milioni di meno della sua concorrente, la democratica Hillary Clinton, ma distribuiti in modo curioso ma tradizionale: si fanno i conti delle dimensioni demografiche degli Stati e Hillary i suoi li aveva distribuiti troppo e Trump concentrati dove serviva di più. Coerentemente, in fondo, col suo mestiere di commerciante ma anche e soprattutto di gestore di case da gioco. La campagna elettorale di tre anni fa era partita con lei come protagonista “obbligato”, ma lui è emerso a sorpresa e al momento giusto e il numero sorprendente di schede.

È stato solo l’inizio di una serie di sorprese che lo hanno fatto protagonista assoluto della politica americana, imprevisto in tanti sensi e modi senza precedenti nella storia americana e sorprendenti nel resto del mondo. La campagna che si chiuderà fra un anno ha avuto e continua ad avere regole tutte diverse fra i due partiti. I candidati repubblicani erano e sono uno solo, lui. Non c’è stato bisogno di contare i risultati delle primarie. Da parte democratica, invece, si sono presentati più di venti aspiranti alla Casa Bianca, uniti solo nella ostilità per Trump e nella convinzione che il Paese abbia bisogno soprattutto di “liberarsene”. I candidati, oltre che tanto numerosi, hanno attratto un numero “anormale” di simpatizzanti: mai tanti candidati erano stati donne, tanti usciti dalle minoranze etniche e razziali, tanto aspri concorrenti. E, fino a un paio di settimane fa, hanno parlato poco di se stessi e moltissimo di lui, Trump. Anche lo stile dei dibattiti è stato senza precedenti: mai si è andato a pescare nel lessico tranne parole che fino a pochi mesi prima erano considerate parolacce. Di tutti i generi, ma soprattutto sessuali, comprensibilmente perché il favorito è accusato di molestie, in qualche caso confinanti con gli stupri e citate senza l’usuale ricorso ad eufemismi. Questo tipo di reato è tutt’altro che solo: accuse di tutti i generi si sono rovesciate non solo su tutti i candidati, ma anche sui loro collaboratori, causando ondate di dimissioni e licenziamenti, soprattutto fra i collaboratori di Trump, sommandosi fino al punto da far riemergere la più grave colpa politica negli Stati Uniti, quella che può portare all’impeachment è cioè alla distruzione di un presidente. La Camera se ne sta occupando intensamente e dopo toccherà molto probabilmente al Senato.

La lontana sorte toccata a Richard Nixon quasi mezzo secolo fa è ridiventata attualissima. I suoi numerosi avversari vorrebbero “licenziare” Trump indipendentemente dall’esito del voto del prossimo novembre. Lui intanto licenzia i suoi collaboratori sospettati pur ogni volta dichiarandoli innocenti. Questo perché molti fra i reati riguardano rapporti segreti e illeciti con Paesi stranieri, in questo momento soprattutto l’Ucraina, ma su un piano più generale, la Russia e potrebbe coinvolgere la famiglia dell’ex vicepresidente Joe Biden e dunque “erede” di Obama e quindi favorito fra i candidati democratici. Pare che non lo sia più e che dunque il partito di opposizione non abbia scelto ancora il proprio leader. O meglio, uno è emerso recentemente con grandi speranze. Una, anzi; una senatrice con un passato di professore universitario. Si chiama Elizabeth Warren e in questo momento è il più popolare fra gli sfidanti di Trump, ma che negli ultimi giorni è diventata il bersaglio di alcuni suoi concorrenti repubblicani, ma soprattutto dell’establishment finanziario. Per un motivo comprensibile: la Warren ha preso la leadership della sinistra, si è installata all’estremo dell’arco dei candidati e adesso fa paura all’establishment del suo partito per colpa dei suoi programmi, che a differenza di quelli dei concorrenti, sono economici e finanziari e comprendono un drastico aumento delle tasse sui “ricchi”, una riforma dei costi della scuola e della salute. Argomenti che la destra americana trova degne di scomunica. Ma non solo l’estrema: tanti elettori di centro, disposti a quasi tutto pur di cacciare Trump dalla Casa Bianca. Ma quasi: per esempio non collocare al suo posto una intellettuale che si presenta pronunciando una parola che in America è politicamente oscena: socialismo. Per la verità, socialdemocrazia. Ma anche così basta e avanza per far rifluire su Trump voti che per altri motivi erano considerati perduti.