Alberto Pasolini
Zanelli
Gli americani muoiono
più giovani di noi. Non è una novità e riguarda soprattutto i giovani, la cui durata
di vita media continua a calare lentamente ma con un certo ritmo. Non se ne parla
molto, questo Paese ci è abituato. Ma adesso forse esagera. L’ultimo allarme è
venuto contemporaneamente a una proposta abbastanza interessante, anche se
riguardante poche persone. Un sondaggio rivela adesso una curiosa risposta a
una domanda tutto fuori che allegra. Hanno chiesto in giro se a qualcuno a
capita di commettere un delitto (oppure di esserne riconosciuto colpevole e
condannato al massimo della pena) che cosa preferisca fra le due soluzioni: la
pena di morte o l’ergastolo. La scelta è collegata, naturalmente, a una antica
scelta culturale negli Stati Uniti, che sono ormai l’unico Paese civile sulla
Terra a contemplare la pena di morte per i suoi delinquenti. Fra gli altri
emergono tuttora la Cina e, più sorprendente, il Giappone. Ma l’America ha una “abitudine”
in più: la somma della pena di morte e dell’ergastolo. Colpito da sentenza
capitale, il condannato non viene “eliminato” rapidamente: passa in carcere un
numero di anni prima di essere condotto nella cella della morte. Durante quel
periodo, naturalmente, c’è la possibilità, molto tenue, che qualche istanza giudiziaria
superiore trovi che la pena di morte non era completamente giustificata e la
commuta nel carcere a vita.
Certo, non è un
argomento adatto alle campagne elettorali e non se ne parla molto, particolarmente
nello stato di umore del governo di oggi e del presidente in carica. Tuttavia la
maggioranza degli americani trova nella propria sorte il male minore, l’alternativa
al plotone di esecuzione o alla sedia elettrica: il 60 per cento degli
americani, pensando a se stesso, preferirebbe languire a tempo indeterminato in
cella, contro il 36 che, invece, se potesse scegliere, opterebbe per l’incontro
immediato con il boia. Anche se non si tratta di un vero e proprio capovolgimento
di “gusti”: secondo l’ultimo sondaggio Gallup, la pena capitale continua ad
essere approvata dal 56 per cento degli americani; il 42 per cento, invece, vi
si oppone. C’è, dunque, una tendenza “umanitaria”, ma lenta: cinque anni fa il
63 per cento era favorevole all’esecuzione, il 37 per cento la “condannava”. La
gente non se ne dispiace troppo. Quello che turba alcuni è l’altro dato statistico:
quello che segnala la continua diminuzione della vita media (si calcolano circa
tre anni in meno degli europei, in particolare degli italiani) e il fatto che
questo accada sempre di più ai giovani, non solo i delinquenti ma anche i più
sani e savi.
Non si sa, almeno
ufficialmente, che soluzione preferiscano coloro cui capita di vedersi offerta
la scelta. L’ultimo dato indica una crescente preferenza al carcere a vita
rispetto a una svelta eliminazione per legge. La scelta è comprensibilmente più
netta fra i giovani, che sono poi la maggioranza dei condannati a morte. La tendenza
è comprensibile per chi abbia memoria degli usi in Usa: essa è il contrario a
quella dei Paesi europei. L’estremo opposto è la Norvegia, che ha abolito da
tempo sia la morte, sia la prigione a vita. La legge vieta oggi al colpevole di
qualsiasi delitto, anche il più atroce, di rimanere in galera più di ventuno
anni e sei mesi. L’ultimo esempio famoso è quello di Anders Behring Breivik, il
fanatico che nel 2011 uccise a fucilate 77 persone partecipanti a un festival della
gioventù del Partito socialdemocratico (all’epoca al governo) sull’isola di Utoya.
Il Paese più vicino e anche il più simile alla Norvegia nei gusti e nelle scelte,
pochi giorni fa la Svezia ha chiuso un’inchiesta di anni su un condannato per
un crimine sessuale che però potrebbe comportare l’estradizione, non
direttamente agli Stati Uniti, che lo aspettano per altri reati, quanto alla
Gran Bretagna che esclude l’estradizione. Pochi giorni dopo, però, il governo
di Stoccolma ha aperto un processo per crimini di guerra contro il ministro
della Difesa dell’Irak. All’altro estremo umanitario, la lunga guerriglia urbana
a Hong Kong ha trovato un difensore in Europa, vecchio, famoso e benemerito: il
settantasettenne Lech Walesa ha annunciato l’intenzione di recarsi a Hong Kong
personalmente nella speranza di una ripetizione dell’evento da lui avviato che
condusse alla caduta del regime comunista e alla liberazione della Polonia. Due
forse poterono vantare questo merito. Walesa ascese al primo governo non
comunista, non si dimostrò altrettanto esperto come governante e diventò un pensionato
con gloria. Qualcosa di equivalente, anche se non simile, toccò a un esponente
politico che si recò in visita alla Cina e andò a spasso per Pechino
incoraggiando gli oppositori pochi giorni prima della strage di Tienanmen. Si chiamava
Mikhail Gorbaciov e aveva appena cominciato a liberare la Russia.