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La vittoria dei Washington Nationals e altro


Alberto Pasolini Zanelli

Uno dei grandi giornali nazionali negli Stati Uniti ha aperto la sua prima pagina con un titolo debordante ed entusiastico: la vittoria dei Washington Nationals nel campionato dello sport più popolare degli Usa, il baseball. Non succedeva da novantacinque anni, cioè dal 1924. La prima pagina è invasa da abbracci e salti di gioia. Gli altri quotidiani distribuiscono meno immagini di gioia e più parole di pensosa cautela, riguardanti un evento nazionale ancora più raro e cento volte più importante: l’apertura del “campionato” di impeachment. Un termine tecnico per definire un match che contiene una sentenza politicamente capitale: la sopravvivenza di un presidente alla Casa Bianca o la sua espulsione dalla vita politica con una “pagella” in profitto e, soprattutto, in condotta. È successo tre volte, con due espulsioni e una ritirata quando la partita era perduta: Richard Nixon (repubblicano) se ne andò in anticipo sulla sentenza e lasciò il posto.

Ora tocca a un altro repubblicano, Donald Trump. I suoi capi di accusa sono molto più gravi e vasti, incentrati sulla politica estera e, dunque, sull’interesse nazionale. L’istruttoria di Nixon si aprì con una scorretta ispezione clandestina di “spie” di terz’ordine del Partito democratico in un ufficio, il Watergate. Il presidente era accusato di avere chiuso un occhio. Il suo attuale successore è “investito” da un dossier di accuse che riguardano un po’ tutte le sue prerogative, dalla correttezza amministrativa, alle grandi scelte di politica internazionale. L’elenco è tanto lungo che né l’accusa né la difesa sono in grado di gestirlo direttamente: questo processo ha mobilitato da ambo le parti reggimenti di avvocati, cui spetterà il dibattimento. Sono stati arruolati i migliori e più noti, a cominciare da Rudy Giuliani, un famoso ed apprezzato ex sindaco di New York e bersaglio oggi di taglienti violazioni di etica professionale, riassunte nella spregiudicatezza nel difendere Trump in tutti i modi e ad ogni costo. Di fatto egli è considerato un leader politico dichiaratamente di parte.

I democratici puntano di più, a quanto pare, sulla quantità e qualità dei testimoni di accusa, che si accumulano senza soste. La prima battaglia, cioè la seduta inaugurale, si è incentrata non sorprendentemente sui “confini” dell’accusa e i metodi degli interrogatori ai testimoni. Che si dividono, sostanzialmente, in due: quelli “spontanei” e quelli praticamente obbligati a rispondere a tutte le domande e, soprattutto, a quelle direttamente riguardanti Trump.

La prima giornata ha vissuto un dibattito soprattutto sul metodo. Il teatro, il primo, è stata la platea della Camera, dove i democratici, sotto la guida della presidente Nancy Pelosi, godono di una solida maggioranza e ne hanno fatto uso per prevalere in quasi tutte le decisioni sui modi e i limiti dei futuri interrogatori dei testi. Le obiezioni riguardavano l’“indipendenza” dalla Casa Bianca dei testimoni a difesa, soprattutto parlamentari che, ammettendo delle colpe del presidente, rischiano di essere “puniti” nelle elezioni dell’anno prossimo. Pericolo che incombe anche sui democratici, che però dispongono di “controllori” meno potenti. Neanche Nancy Pelosi ha “muscoli” paragonabili a quelli di Donald Trump. Fra i più ascoltati, dunque “torchiati”, ci saranno numerosi ex ministri e sottosegretari. Proprio alla vigilia della prima sessione del “processo” alla Camera è stata preannunciata la prossima presenza di un personaggio di vasta fama come John R. Bolton, leader dei “falchi” americani, che è stato fra i più ascoltati consiglieri del presidente ma che di recente se ne è allontanato per divergenze sul Medio Oriente. Un primo esempio è venuto in apertura con il “caso” del colonnello Alexander Vindman, che era stato incaricato di indagare i rapporti con il governo ucraino e che li ha giudicati “pericolosi per la sicurezza nazionale”.