Alberto Pasolini Zanelli
La “conferenza di
pace” sulla Siria si è conclusa, per ora, nel modo migliore. Vale a dire non si
è conclusa. Perché tutte le alternative a questo nulla di fatto sarebbero state
decisamente peggiori. Le speranze, per la verità, non erano grandi, neppure nel
gergo degli ottimisti di professione. Si sa, inoltre, che i negoziati fra
nemici portano qualche risultato quasi solo se condotte in segreto, come si è
dimostrato anche di recente. Quello in riva al lago di Ginevra non è stato, né
poteva essere, altro che un forum per i protagonisti e i loro alleati e
complici di ripetere in pubblico le loro inconciliabili opinioni e richieste,
ascoltati dal mondo con più attenzione del solito e soprattutto in faccia l’uno
all’altro. Accordi non ne potevano uscire, compromessi neppure; magari qualcuno
è in corso di fabbricazione ma parlarne avrebbe distrutto occasioni e speranze.
Quello ginevrino è
stato dunque soprattutto un dibattito, che avrebbe potuto essere una lite se si
fosse svolto altrove ma che le tradizioni del luogo hanno potuto invece
moderare. Si parlava un tempo, nel gergo diplomatico, di “libri bianchi” sui
principali contenziosi internazionali. Di questo libro sono state scritte,
finora, soltanto le prefazioni. Numerose quanti erano i partecipanti. E in
taluni casi eloquenti, intersecate da inevitabili gaffe e correzioni di rotta. Per
esempio sulla partecipazione iraniana, prima ventilata, poi esclusa, poi
annunciata dal Segretario dell’Onu in persona, poi dallo stesso rimangiata, infine
“recuperata”. Teheran non poteva dare ai suoi alleati di Damasco il consiglio desiderato
dalla controparte: cedere. La “gita” è servita a Rohani soprattutto come
occasione per rilanciare una presenza diplomatica iraniana molto più ampia,
appoggiata all’entrata in vigore dell’accordo provvisorio sui programmi
nucleari, parzialmente sospesi in cambio di una parziale riduzione delle
sanzioni economiche. Un collegamento reso ancora più esplicito dalla presenza
del presidente iraniano al contemporaneo “vertice dei più ricchi” a Davos.
Quali sono dunque
le posizioni ufficiali sulla Siria? Le opposizioni hanno ribadito l’ingiunzione
ad Assad di dimettersi come precondizione di un accordo. Il governo siriano ha
risposto definendo l’incontro un “vertice contro il terrorismo”, definizione che
si addice a una parte della “resistenza”: quella cui Al Qaida ha rivolto il
pubblico “savio” consiglio di desistere dalla guerra fratricida condotta da
settimane e che di conseguenza agevola la “riscossa” delle forze del regime. Hanno
parlato anche i “patroni”, i rappresentanti degli Stati e delle organizzazioni
politico-militari che aiutano, armano ed incitano i contendenti da ormai tre
anni. La “coalizione sunnita” diretta e finanziata dai sauditi e dagli Emirati
del Golfo, la fazione sciita sponsorizzata dall’Iran attraverso gli Hezbollah
libanesi. L’Occidente, presenti alcuni Paesi europei ma guidato dal Segretario
di Stato americano Kerry, che ha dovuto una volta di più barcamenarsi tra i
suoi istinti e le sue intuizioni di mediatore delle pressioni esterne ed
interne per una linea dura nei confronti del regime di Damasco, contro cui gli
Stati Uniti sono stati sul punto, poche settimane fa, di scatenare una “opzione
militare”. Così Kerry, in divisa da “falco”, ha ripetuto che Assad non potrà in
alcun caso rimanere al potere e che la “soluzione pacifica” di cui si discute
prevede il suo ritiro.
Gli ha risposto per
le rime il ministro degli Esteri russo Lavrov, respingendo ogni
“interpretazione unilaterale” dell’accordo raggiunto alla fine dell’anno scorso
e ribadendo che “pregiudicherebbe l’intero progetto di formare un governo ad
interim”. La decisione deve spettare al popolo siriano, dopo che “avranno
taciuto le armi”, preferibilmente nella forma di un governo di coalizione. Da
Washington sono suonate parole piuttosto recenti di Obama in risposta alle
critiche per avere rinunciato all’attacco armato: “Difficilmente il
coinvolgimento americano avrebbe potuto cambiare le cose, a meno che noi non
fossimo pronti a un impegno di dimensioni paragonabili a quello nostro in
Irak”. In altri termini, chi potrebbe non vuole e non vorrebbe non può. In
Svizzera non c’è stata rottura. Le trattative continuano. La guerra anche.