Alberto
Pasolini Zanelli
L’allarme
risuona adesso con lugubre urgenza, ed è giusto. Ma anche, da molte parti, con
i toni della sorpresa: come se gli “addetti” avessero scoperto solamente ora
l’importanza e la gravità di una crisi che pare scoperta oggi e che è invece
maturata lentamente concedendo così a ciascuno di prenderne i tempi e le
misure. Invece questo è accaduto con un ritardo davvero storico, soprattutto a
Washington. Nella Casa Bianca abita un uomo di buona volontà dedito alle più
profonde riflessioni e che aveva capito più presto e meglio di chiunque altro
che cosa si sarebbe dovuto fare e che cosa evitare. Ci ha lavorato anche con
pazienza, forse troppa, ma più probabilmente a causa delle tante e pesanti
limitazioni inerenti al suo potere.
Dicono di Barack
Obama che pensa troppo e non decide abbastanza. C’è del vero per motivi vari, alcuni
radicati nella struttura stessa del potere in America, altri più contingenti.
Di conseguenza le sue diagnosi sono molto spesso giuste ma non si traducono in
cure, tanto meno chirurgiche. Dipende dal suo carattere e dall’accumularsi
degli ostacoli. Egli viene giudicato di questi tempi soprattutto sugli esiti
della sua politica economica, ma il giorno in cui le cronache che lo riguardano
diventeranno Storia qualcuno si sentirà finalmente di riassumerle in una
parola, in un nome: Irak. All’indomani stesso delle stragi dei terroristi di Al
Qaida a New York e a Washington, mentre tutto il Paese comprensibilmente
ruggiva per l’indignazione che reclamava una risposta subito, un giovane
senatore dell’Illinois ammoniva che la reazione più efficace è quella che
conosce limiti ben precisi e che la riflessione è in certi casi la prima fra le
supearmi di cui gli Stati Uniti abbondano.
Ma alla Casa
Bianca in quelle ore drammatiche non sedeva lui, bensì un uomo che come
politica ma soprattutto come carattere era l’esatto contrario: Barack Obama
riflette troppo e qualche volta arriva tardi. Ha “troppa testa”. George W. Bush
non riflette abbastanza: ha “troppo cuore”. Un tratto di carattere che ebbe, e
forse ancora ha, conseguenze in Afghanistan, nel luogo cioè della meno discussa
delle sue iniziative belliche, ma soprattutto in Irak. Le cronache delle ultime
ore mostrano una avanzata blitz verso Bagdad, il rapido collasso del regime.
Parole e immagini da primavera 2003. Solo che stavolta i colpi di maglio sono
degli sconfitti di allora, degli integralisti sunniti, dei fautori di un nuovo
Califfato nel Medio Oriente, insomma degli allievi di Osama Bin Laden. Le
truppe americane si sono appena ritirate dall’Irak, compreso il Nord del Paese
da cui era cominciata la loro avanzata e dove ora cadono una dopo l’altra le
roccaforti del potere che Washington aveva installato dopo avere distrutto il
regime di Saddam Hussein e ucciso il dittatore stesso.
In Irak doveva
cambiare tutto e ora ci accorgiamo che, forse, non è cambiato niente. E
altrettanto poco, cosa ancora più grave, è mutato nel pezzo di mondo che gli
sta attorno. Dopo un caos di dodici anni, si vanno riformando i fronti, le
alleanze, gli odii di allora. Saddam Hussein era un dittatore “laico” di marca
sunnita antagonista da sempre dell’Iran sciita e del più violento
fondamentalismo islamico. L’America di Reagan lo aveva sostenuto nella sua
guerra contro gli ayatollah di Khomeini e aveva chiuso un occhio anche sul
regime, omonimo anche se duramente rivale, in Siria. Nel Medio Oriente esisteva
un tristo “equilibrio” fra dittature che stabilizzava in qualche modo la
regione e la capitale mondiale del petrolio.
Ora, dopo i
diretti interventi americani a Bagdad (e a Kabul), i Paesi hanno cambiato
regimi ma le passioni e gli odii sono sempre quelli e così i metodi del
terrore. La partita si è fatta ancora più complessa dopo il pot pourri di
iniziative che vanno sotto il nome di Primavera Araba e che sono risultate
nell’abbattimento di altri regimi alla Saddam, dall’Egitto alla Libia, mentre è
in corso da tre anni un conflitto altrettanto sanguinoso in Siria. Col
risultato che Tripoli è la sede di una guerra fra bande che contamina anche i vicini
africani e a Damasco l’Occidente sostiene da tre anni un coacervo di ambizioni
fra cui emerge sempre di più la fazione jihadista legata anch’essa all’eredità
di Bin Laden. Sono gli stessi clan, le stesse bandiere, gli stessi slogan
all’offensiva in Irak e bloccati invece ora sulla difensiva in Siria. L’intera
regione è più che mai in preda alle fiamme. Più che mai a Washington si rifanno
i conti, si chiedono dei perché, si rivedono le decisioni prese: dal presidente
che pensa troppo ed esita ma soprattutto da quello che pensò troppo poco.