Alberto
Pasolini Zanelli
John Kerry è
arrivato dove non poteva fare a meno di spingersi: a Bagdad, stazione obbligata
di coronamento – per ora – della sua complessa, delicata e ciclopica missione
nel Medio Oriente. Nel cuore della crisi che gli esperti si attendevano da anni
e che la Superpotenza americana ha a lungo rifiutato di prendere in
considerazione, anche dopo l’arrivo sul “trono” che era stato di John W. Bush
di Barack Obama, che fin dal primo giorno aveva esposto e proposto una
strategia opposta a quella inaugurata nella primavera 2003. Scatenando pieno
attacco militare contro l’Irak di Saddam Hussein, l’allora inquilino della Casa
Bianca aveva gettato sul tavolo quella che doveva essere la carta pigliatutto:
risolvere uno dei tanti contrasti nel rissoso mondo arabo con l’eliminazione
del più visibile allora fra i contendenti. Una mossa che doveva eliminare le
radici del terrorismo internazionale che aveva poco prima investito
sanguinosamente l’America.
La soluzione
militare radicale trovò allora plauso quasi totale negli Usa. Due soli
esponenti politici eminenti la ricusarono: un oscuro neosenatore dell’Illinois,
Obama e una “vecchia volpe” dell’establishment diplomatico, il senatore John
Kerry. Le riserve del primo furono di principio, morali. Ma quelle del secondo
si riassunsero in una frase, in una proposta che suscitò addirittura lo
scandalo e costò probabilmente al suo autore la Casa Bianca. Kerry riconosceva
che non si può distruggere il terrorismo con una guerra o dieci guerre rivolte
alla sua eliminazione: si deve invece evitarlo, contenerlo ridurlo
progressivamente senza illudersi di annientarlo ma lavorando duro per tenerlo
ai margini, “come la droga o la mafia”.
È passato più di
un decennio e ora si tirano le somme. La strategia del “tutto o niente” ha
mostrato da tempo i suoi limiti e le sue contraddizioni. Il Medio Oriente è di
nuovo in fiamme e l’America ha riconosciuto che il “mai trattare con i
terroristi” è fallito ed è necessario parlarci, venire a patti, usarli se
possibile l’uno contro l’altro. “Liberato” da Saddam Hussein, l’Irak è in
condizioni tanto peggiori, sconvolto di nuovo da una guerra che si è estesa a
tutti i suoi vicini e da questi viene nutrita. I “rivoluzionari” siriani, per
tre anni aiutati dall’Occidente a far fare ad Assad la fine di Saddam, sono in
ritirata sia di fronte alla controffensiva del regime di Damasco sia perché
gradualmente passati sotto la leadership dei jihadisti istruiti e ispirati da
Osama Bin Laden. La Siria dittatoriale e nazionalista era stata alleata degli
Usa nella prima guerra del Golfo. Oggi è dalle sue terre che è partita la nuova
invasione dell’Irak in nome dell’oltranzismo sunnita e con l’obiettivo della rifondazione
del Califfato. Nel vicino Egitto la caduta del dittatore filo-occidentale Mubarak
non ha aperto la strada alla democrazia ma prima alla presa del potere degli
integralisti e poi di rimbalzo a una nuova dittatura militare. Ancora più a
Occidente l’eliminazione fisica di Gheddafi, compiuta con la complicità aperta
dell’Occidente stesso, ha fatto piombare il Paese nel caos dominato dalle
“milizie” concorrenti. L’instabilità ha messo l’uno contro l’altro i vicini,
compresi i detentori delle ricchezze petrolifere, mettendo l’Arabia Saudita
contro il Qatar ed erodendo l’antica alleanza tra gli Emirati e l’America.
Tutti contro
tutti, o quasi, su uno sfondo sempre più sanguinoso e con prospettive nere
anche al di fuori dei Paesi oggi in guerra. Basta pensare alle conseguenze che
avrebbe sul pianeta intero ma particolarmente sull’Europa una chiusura dei
mercati petroliferi ed energetici, per di più contemporanea all’altro focolaio
di rischi che negli ultimi mesi si è aperto nella principale area produttiva d’Europa
con le ostilità fra Ucraina e Russia, destinate probabilmente a risolversi senza
una guerra apertamente guerreggiata ma con un ulteriore indebolimento
dell’America e dei suoi alleati. Che cosa si poteva fare allora? Di strade
aperte ce n’era sul momento una sola, anche se certamente assai costosa: quella
della diplomazia, della mediazione, delle concessioni. Al crollo delle alleanze
si possono contrapporre tentativi di alleanze nuove e in parte inedite, come la
collaborazione che si disegna fra la Turchia e il suo antico nemico e vittima,
i curdi. Spegnere qualche fuoco, uno per volta. Riconoscere errori antichi, che
nel caso della Siria e dell’Irak risalgono addirittura alla conclusione della
Prima Guerra Mondiale, di cui si “celebra” il centenario. Trattare, offrire.
Quello che John Kerry, fedele alla sua missione, è andato a proporre al crollante
regime di Bagdad, per salvare quello che resta. Non con i missili, stavolta, ma
con una vecchia arma chiamata diplomazia.