Alberto Pasolini Zanelli
La settimana che si è appena chiusa è stata molto densa. Riempita di fitti colloqui. Concentrati in un angolo d’Europa spesso visitato dalla storia. In una manciata di chilometri quadrati si sono incontrati, o incrociati, i leader degli Stati Uniti, della Russia, dell’Europa in tutte le sue sfumature. Schermaglie diplomatiche, colloqui di tono deciso, esami di tragedie planetarie e di pettegolezzi quasi municipali. A Bruxelles, a Parigi, sulle spiagge di Normandia dove si celebravano i settant’anni di una battaglia che suggellò l’esito di una guerra mondiale e le sorti del pianeta. Un calendario così denso che ha indotto il padrone di casa, uno sfortunato leader di buona volontà di nome Francois Hollande, a consumare due cene al vertice in meno di due ore, a offrire menu contrapposti a Barack Obama e a Vladimir Putin. E a un visitatore debuttante come il presidente ucraino Petro Poroshenko l’occasione di ricevere la prima stretta di mano augurale da colui che egli certamente considera il peggior nemico suo e del suo popolo. Uno hand shake dietro a una duna mentre il resto d’Europa era impegnato febbrilmente in tutt’altro: dove collocare l’ex primo ministro del Lussemburgo.
Jean-Claude Juncker è uno statista esperto al di là delle dimensioni geografiche del suo Paese, un mediatore di professione. Politicamente è democristiano, una denominazione storica che nell’uso diplomatico europeo si traduce in “popolare”. E le assise di questa forza politica paneuropea lo avevano prescelto come successore del portoghese Barroso a guida teorica del braccio esecutivo della Comunità. Analoga decisione avevano preso le altre “famiglie” dell’Ue. Era stato deciso che i partiti nella loro forma sovranazionale avrebbero dovuto proporre ma il Parlamento di Strasburgo disporre, obbedendo alla volontà degli elettori. Il Partito Popolare ha ottenuto più seggi e quindi la poltrona dovrebbe andare al candidato da questi prescelto: Jean-Claude Juncker. Pareva essere cosa fatta, anche se poco più di una formalità.
Non è andata così, è subito emersa una situazione all’italiana, con mille obiezioni a posteriori. Prima fra tutte, anche se avanzata con discrezione, quella della donna più potente d’Europa, la sua collega Angela. Che non ha detto perché ma ha lasciato intendere però e ha avviato consultazioni più o meno sott’acqua, con una telefonatina a un’altra donna molto potente, Christine Lagarde, oggi capo del Fondo Monetario Internazionale. Il colloquio doveva essere privato (vale a dire intercettato soltanto da alcuni uffici del servizio segreto americano) e ne sono trapelate solo indiscrezioni: Christine ne era forse interessata? Non molto, pare. Ma le curiosità si sono presto concentrate sulla suggeritrice. Perché mai? È avanzata ben presto un’ipotesi paradossale quanto credibile: Juncker non va bene a guidare l’Europa perché è troppo europeo. E non per le innovazioni che potrebbe proporre bensì proprio perché è sospettato di voler lasciare le cose come sono senza tenere conto, cioè, della volontà espressa il 25 maggio da milioni di elettori (che desiderano un mutamento) e da una dozzina o più di eletti che pure vorrebbero cambiare ma in modi diversi e più coperti. Intrighi di potere rivestiti da formule ideologiche: con quel lussemburghese alla guida l’Ue sarebbe diventata pericolosamente “europeista”, un po’ troppo “federalista” e non abbastanza “confederale”. Su questi fini punti si è lavorato negli intervalli fra confronti del tipo di quello con gli Stati Uniti, con Obama che vorrebbe che l’Europa riarmasse in funzione antirussa e i Paesi europei che invece tengono molto a buone relazioni economiche con la Russia, a cominciare dalla Germania proseguendo con l’Italia (vedi forniture energetiche) e con la Francia, che si appresta a vendere a Mosca navi da guerra. Finché non sono scesi in campo i veri, decisi leader della resistenza alla minaccia lussemburghese: gli inglesi, guidati dal loro premier David Cameron, che con eloquenza churchilliana ha preannunciato il suo “mai”. Se l’Europa sceglierà Juncker, egli convocherà un referendum in tutto il Regno Unito, in sostanza proponendogli di uscire dall’Unione Europea. Una promessa che nasce dalle cifre della sonora sconfitta del Partito Conservatore nelle elezioni del 22 maggio ad opera degli anti europei ufficiali, il Ukip, partito per l’indipendenza del Regno Unito, quello che pare voglia allearsi con Beppe Grillo. Un no pronunciato proprio nel settantesimo anniversario dello sbarco delle truppe britanniche in Normandia. Per far fronte a Hitler e, adesso, al pericolo lussemburghese.
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