Alberto Pasolini Zanelli
È troppo presto per dire che
l’annuncio di Putin sulla Siria è “vago”. Se non altro perché esso si compone
di diversi annunci, ciascuno dei quali piuttosto chiaro e preciso, magari senza
essere del tutto impegnativo. Le parole che sono venute dal Cremlino sono un
elenco di certezze che, fuse assieme, lasciano spazio a dubbi, soprattutto da
parte di chi potrebbe essere coinvolto in una scelta politica non desiderata ma
molto difficile da respingere. Le incertezze nascono per ora soprattutto a
Washington, cioè nel campo della Superpotenza numero uno che in cinque anni non
è riuscita a imporre la soluzione che sarebbe certamente la più gradita
nell’ambito di un compromesso tutt’altro che paritetico. Anche nella scelta del
momento i riferimenti di tempo abbondano: la Russia va molto vicina ad
annunciare unilateralmente la fine di un conflitto in cui è entrata per ultima:
con qualche somiglianza, dunque, con quella che è stata la tradizione americana
nelle due grandi guerre europee: aspettare che i belligeranti, amici e nemici,
si logorassero, militarmente e finanziariamente, in anni e anni per poi
intervenire con le proprie forze, soverchianti e “fresche” dalla parte sempre
amica e chiudere la partita in fretta. Una formula pienamente riuscita in
quelle due grandi occasioni ma rivelatasi poi molto meno adatta ai conflitti
regionali. Il paragone che viene più immediato è quello con il Vietnam, dove
però la pace coincise con la sconfitta degli Stati Uniti.
I paralleli con la guerra siriana
sono rischiosi e soprattutto precoci. Il “proclama” che viene dal Cremlino è
arrivato a Washington in forma che ricorda, tecnicamente, gli anni del
“telefono rosso”. Putin, per cominciare, ha “avvertito” Obama della propria
decisione, non lo ha “consultato”. Lo ha colto di sorpresa anche se non si può
dire sia stato contraddittorio alle fasi precedenti del “dialogo”. Analogamente
Mosca non si è “messa d’accordo” con il regime di damasco che la Russia
sostiene: anche Assad lo ha “avvertito” di una decisione che, almeno sul piano
militare, è unilaterale, accompagnando la comunicazione con un invito e una
raccomandazione: “Vedrai che ti conviene”.
Sono solo alcuni tratti di una
ambiguità ampiamente voluta: la Russia sospende i bombardamenti strategici. Non
si sa per quanto o in che misura, ma mantiene attive alcune basi aeree. La
Russia non “scarica” Assad, ma gli ricorda, non per la prima volta, di essere
entrata in guerra per ottenere la fine della guerra, non la vittoria totale di
uno dei belligeranti. La Russia ha inteso difendere, e continuerà a farlo, i
propri interessi nell’area, a cominciare dalla base navale di Latakia, unica
nel Mediterraneo. La Russia desidera la cessazione delle ostilità ma in termini
che non la danneggino ma che anzi mettano in risalto il suo ritorno al ruolo di
Grande Potenza (anche se non proprio o non ancora Superpotenza). Altra
coincidenza, l’annuncio di Putin è venuto esattamente nel quinto anniversario
dello scoppio di un conflitto cominciato in apparenza come uno dei tanti capitoli
del confuso romanzo detto Primavera Araba, un progetto molto ambizioso dal
disegno non chiaro ma le cui ambizioni si sono presto dimostrate eccessive e
tutt’altro che limpide. L’intero progetto è stato forse nutrito di ambizioni
nobili, ma non tutte limpide, sovraccarico anzi di illusioni e di disegni tutt’altro
che disinteressati. Lo si legge nella carta d’identità dei Paesi, delle
alleanze, degli interessi economici dei vari sponsor, per finire soprattutto
con le sette religiose. Un po’ di libertà e un po’ di basi militari, un po’ di
petrolio e un po’ di sunniti, un poco di Iran e un poco di sciiti, un po’ anche
di ambizioni europee malcalibrate, le stesse che condussero l’altro intervento
disastroso in Libia. La Russia non figurava fra gli “attori” iniziali. I suoi
interessi coincidevano semmai con uno status quo agevolato da una indifferenza per
i “diritti civili”. In Siria il Cremlino aveva ancora la sua fetta di potere mondiale.
La Primavera Araba la metteva in pericolo e dunque la strategia di Putin poteva
essere solo il contributo alla difesa dello status quo. La “pax” russa
consisteva e consiste in questo: un Medio Oriente diviso, anche nutrito di
guerriglie, ma senza grandi e aperti conflitti come quelli che da cinque anni ardono
attorno a Damasco. L’intervento militare è venuto forse un po’ in ritardo, ma
non è stato “simbolico”: è stato il più intenso fra quelli stranieri. Si
comprende dunque che dal Cremlino venga ora anche il “cessate il fuoco”.