Alberto Pasolini Zanelli
Ha suscitato
reazioni che vanno dalla sorpresa alla più profonda preoccupazione. Sono i
risultati delle elezioni in tre Laender della Germania, che hanno visto
l’avanzata di un nuovo partito definito di estrema destra e dunque una forte
diminuzione per le due grandi forze politiche tedesche tradizionali, i
democristiani, guidati ormai da un decennio da Angela Merkel e i
socialdemocratici, normalmente alternativi ma costretti dai risultati a fare da
violino di spalla alla Cancelliera. Le cifre non si prestano a equivoci: il
“partito Merkel” è stato sconfitto in Renania-Palatinato, terra
tradizionalmente cattolica e soprattutto nel Baden-Wuerttemberg, un tempo sua
roccaforte e i suoi alleati socialisti hanno registrato un declino paragonabile.
Ha vinto la “forza nuova” con il 12,6 per cento in Renania, il 15 per cento nel
Baden-Wuerttemberg e il 24 per cento in Sassonia-Anhalt. Il partito si chiama
Alternativa per la Germania
ed è considerato da molti “neonazista”. L’aggettivo che mancava per poter
catalogare questo voto di protesta come una “crisi tedesca”.
Il che è inesatto:
si tratta di un capitolo importante di una crisi politica europea. Basta
confrontare i numeri e le combinazioni con il voto recente, per esempio, in
Spagna e in Portogallo. I partiti iberici affini ai democristiani tedeschi
hanno perso il controllo dei parlamenti, i socialisti, tradizionale
alternativa, sono andati anche peggio. Da mesi a Madrid e a Lisbona non si
riesce a mettere in piedi un governo. E non molto differenti sono i dati che
escono da un paio d’anni dalle urne altrove: dalla Grecia che è volata a
sinistra, alla Francia che si è spostata a destra, all’Ungheria e alla Polonia
che si sono date una svolta autoritaria, ai Paesi scandinavi che hanno prodotto
movimenti di protesta estranei alla loro storia. E non dimentichiamo l’Italia,
con la sua “soluzione” non esattamente parlamentare. L’Europa è unita, dunque,
ma dai suoi malanni. È vero però che in buona parte essi hanno origine, almeno
sul piano politico, in Germania. Quello che doveva essere il passo in avanti
dell’unità europea, ha finora prodotto soprattutto dei costi. Che sono di
diverso genere e che gli europei dalla memoria più corta attribuiscono ora
volentieri alla “crisi dell’immigrazione”, quello dei profughi che ci invadono
dal Medio Oriente in fiamme, che “l’Europa vuole” ma che i Paesi europei
sostanzialmente respingono. Una contraddizione riassunta nelle scelte della
signora Merkel che, probabilmente spinta dai più nobili sentimenti, ha proclamato
una scelta in marcato contrasto con quella da lei imposta non alla sola
Germania ma in tutta l’Europa e che si riassume in due formule: “Patto di
Stabilità” e “I debiti si pagano”.
Li stanno pagando,
in un modo o nell’altro, tutti, Grecia in testa. Adesso anche la Germania. E la signora Merkel
in particolare, paradossalmente punita per il suo gesto più generoso dopo
essere stata premiata per la sua arida e virtuosa intransigenza. Perché senza l’Austerity
imposta da Berlino e da Bruxelles ci sarebbe stato almeno un po’ più di spazio
nei Paesi meno robusti finanziariamente. Più “respiro” nelle scadenze, meno prediche
dal sapore di ultimatum, più disponibilità ad accollarsi i doveri umanitari, più
varietà di “indirizzi” per il “popolo delle zattere” e per quello dei treni. Un
Paese “debitore” può essere più attraente di un creditore severo; il cui
governo non è esente dal dover “pagare” alle urne.