Alberto Pasolini Zanelli
I terroristi celebrano, si sa, gli
avvenimenti che gli altri esseri umani deprecano. Negli ultimi giorni e ore essi
hanno potuto celebrare uno dei loro sanguinari trionfi nel cuore dell’Europa
che soffre, si divide e teme. Contemporaneamente essi hanno dovuto subire la
sconfitta simbolicamente più grossa del quinquennio più sanguinoso della loro
offensiva contro il resto del mondo. Bruxelles è stata insanguinata proprio nel
momento in cui veniva liberata Palmira e molto probabilmente la lunga guerra in
Siria è giunta a una svolta da salutare come una vittoria per l’umanità intera.
Palmira era diventata un simbolo e lo era rimasta per lunghi mesi, sia pure
cambiando più volte di significato. Quando è stata conquistata dai terroristi dell’Isis,
la loro offensiva in Siria e anche in Irak era al culmine e le sue vittorie,
sempre coronate da massacri di civili, parevano irreversibili. Da Ramada a
Mossul a Raqqa, tutte le strade parevano condurre a Damasco. Quella lunga
guerra aveva trovato un simbolo, un significato mondiale, ma la sua fama era
costruita sulla rassegnazione all’irreversibilità dei destini di quella guerra.
Il prossimo passo doveva essere imminente: la caduta di Damasco, la cacciata
del dittatore Assad, un caos paragonabile a quello portato ai suoi tempi dai
talebani in Afghanistan dopo il ritiro delle armate sovietiche. Nessuno sembrava
potere scongiurare tali sviluppi, anche perché, soprattutto in Occidente, ben
pochi sembravano realmente volerlo. La decapitazione delle statue riassumeva,
simbolo ben concreto, quella degli uomini, delle donne, dei bambini. Si sbriciolavano
i templi e le immagini delle divinità pagane, prendevano il loro posto come
simboli dei truci tagliagole quasi fossero nuove divinità. Al punto o quasi da
far risorgere memoria e simpatie per il Dio Baal. E il resto del mondo non
sapeva che piangere e compiangere le vittime di carne e quelle di marmo.
C’erano troppi belligeranti, troppi
fronti, le alleanze erano articolate in modo contraddittorio e surreale: l’Occidente
mandava i suoi aerei a colpire i jihadisti ma contemporaneamente anche i loro
nemici, secondo una “logica” senza molti precedenti nella storia, immemore
dell’antico adagio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, si
riteneva possibile una “neutralità” proclamata tra le mille distinzioni. Assad
era dato per perdente da anni. Non erano leciti dubbi nutriti dalle cronache e
dalla storia. Si compiangevano le vittime di duemila anni fa e si dava per
scontata l’impunità degli assassini di oggi. Ci si aggrappava alla profezia più
smentita secondo cui gli assassini dell’Isis sarebbero stati dei continuatori dei
martiri della “primavera araba”, mentre essa era più morta di quelle statue di
Palmira.
A sbloccare la situazione è venuto un
nuovo belligerante che nessuno aveva previsto: la Russia. La svolta in Siria è firmata
Vladimir Putin. Perseguendo unicamente gli interessi di Mosca (la Siria era ed
è tuttora l’unico Paese del Mediterraneo ad aprire i suoi porti ai russi) e senza
attendere ufficialmente gli “alleati”. In prima persona Mosca ha mandato
prevalentemente gli aerei, caccia e bombardieri, con molta continuità che non
le “missioni” americane e alleate a vantaggio dei ribelli “buoni” che
combattevano lo stesso nemico, cioè Assad. Quanto alle operazioni di terra,
esse sono partite in dosi assai leggere e sparse, ma poi si sono concentrate
sempre di più sulla zona di cui fa parte anche Palmira e dove si trovano gli
incroci delle autostrade che attraversano tutta la Siria e conducono verso
Ovest alle due zone più popolate, Damasco e Homs e si estendono verso Est,
sulla stessa “rotta” che consentiva un tempo il passaggio di una branca della
Strada della Seta e collegava anche Roma alla frontiera orientale più
combattuta e minacciata ai tempi dell’Impero perché era la frontiera con la
Persia, cioè con l’Iran di oggi. Nel suo “bollettino della vittoria” dei giorni
scorsi Assad ha ricordato con orgoglio “il successo significativo e la prova
evidente della efficacia della strategia seguita dall’esercito siriano e dai
suoi alleati”, sottolineando anche il contrasto con quella che Assad ha
definito “mancanza di serietà” da parte della coalizione guidata dagli Stati
Uniti. Che però sono andati a poco a poco modificando le dimensioni del loro
impegno. Una manovra dettata da una più realistica valutazione rispetto ai
primi anni della guerra civile siriana in cui Washington parve lasciarsi
guidare dagli alleati “interventisti”, prima fra tutti la Francia, quasi in un
replay della malconsigliata “crociata” contro Gheddafi in Libia. Portata avanti
anche in musica: si tornava a sentire quello che era stato l’inno nazionale
francese negli anni di Napoleone III, in sostituzione della Marsigliese, dal
testo troppo “repubblicano”. Anche perché all’Eliseo non c’è più, per il
momento, Sarkozy. Le alleanze non si cancellano con le vittorie. Potrebbe
perfino salire in questo momento il ruolo dell’Italia, proprio a proposito di
Palmira. A Carrara stanno estraendo a ritmo accelerato il marmo destinato a
ricostruire l’Arco di Trionfo che i romani eressero nel II secolo dopo Cristo
per celebrare una grande vittoria contro i persiani, fra i primi oggetti rasi
al suolo dal Califfato.