Alberto Pasolini Zanelli
Con le debite
proporzioni (ma anche un tantino oltre) quello che tocca in queste ore il
culmine è stato ed è l’ Un evento politico che, inevitabilmente
ma anche per disegno politico, è nato e si concluderà come uno spettacolo.
Quello che rimarrà come culmine sono le parole di Barack Obama, pronunciate in
un luogo solitamente dedicato agli eventi sportivi. Nell’area dove si sono
svolte o si svolgeranno altri spettacoli meno formalmente politici ma sempre
nell’ambito di una consacrazione e di una “vita nuova”. Prima e dopo Barack, si
sono esibiti o si esibiranno, per fare solo alcuni esempi, i Rolling Stones,
Bruce Springsteen, i Guns ‘n Roses, Beyoncé, Mick Jagger, Paris Hilton. Il 3
maggio toccherà a un festival Chanel. Però a fare concorrenza a un presidente
americano, sia pure uscente verso la pensione, sarà quasi solo un incontro di
baseball nel tempio cubano di questo gioco così americano, nella sede di uno
“squadrone” che si chiama, curiosamente, “Industriales”. È successo, succede e
succederà a Cuba, insomma, di tutto. Tranne le cose proibite, quelle su cui si
sono abbattuti i veti incrociati. Tre argomenti tabù, tre cose che Barack Obama
non può fare o che non possono fargli fare. La prima è un “riguardo” ai padroni
di casa: al leader del Mondo Libero non è stato permesso incontrare i
dissidenti di un regime che è tuttora in gran parte totalitario o almeno
dittatoriale. Il secondo veto è per la sensibilità di molti americani e
soprattutto dei dissidenti che dall’Avana per mezzo secolo si sono rifugiati a
Washington e dintorni: Barack Obama ha parlato, a lungo e anche in profondo,
con Raoul Castro, presidente di Cuba, ma gli è stato “fortemente sconsigliato”
di fare due chiacchiere anche con Fidel Castro. Questo la destra americana e i
profughi non lo avrebbero tollerato e d’altra parte una scusa pronta c’era:
l’età e le condizioni fisiche del fratello maggiore e predecessore, autore e
leader della Revolucion, anima gemella del Che Guevara, coloro i cui
megaritratti ornano e riassumono la piazza della Rivoluzione. Con Fidel ci ha
parlato perfino il Papa, che però non ha delle elezioni in calendario e che
comunque aveva un regalo per i cubani pieno di significato per il resto della
Cristianità: il recentissimo “vertice” con il Patriarca della Chiesa ortodossa
russa. La ripresa ufficiale di un dialogo per riaggiustare una frattura che
risale a più di mille anni fa, tanto è vero che è sorta su una “frontiera” disegnata
per dividere amministrativamente l’impero romano. Era tanto atteso da venire
inatteso. Ma di date più storiche di così ce ne sono poche. Che le due anime
“amministrative” del cristianesimo si siano riabbracciate proprio all’Avana ha
stupito molti e deliziato i cultori della grande Storia; compresa la raffinata
“giustificazione” che dal momento che il Patriarca è russo, L’Avana, che è
cattolica “occidentale”, ha però rapporti storici particolarmente cordiali con
Mosca. Che sono poi, naturalmente, quelli degli anni del comunismo. Il terzo tabù
riguarda più da vicino gli americani. Guantanamo è un pezzetto di Cuba preso in
“prestito” dopo una vittoria militare contro la Spagna. Se se ne parla, è
perché da quindici anni è diventata una prigione “fuorilegge”, in cui sono
rinchiusi estremisti islamici catturati durante un altro conflitto, quello in
Afghanistan, fortemente sospettati di “simpatie” terroristiche ma mai accusati o
processati. Un’anomalia giuridica di cui Obama è ben conscio: appena salito
alla Casa Bianca, aveva annunciato la propria intenzione di chiuderla. Non ci è
ancora riuscito, evidentemente dunque non ce la farà. Non può non avere provato
la tentazione di visitare almeno quell’angolo di Cuba su cui sventola la
bandiera Usa, ma ha saputo saggiamente astenersene: non avrebbe giovato alle
fortune elettorali del suo partito, il democratico, sotto tiro di una
opposizione repubblicana che si servirebbe del gesto per inasprire la condanna
dell’intera presidenza. Soprattutto nel Partito repubblicano del 2016, quello
che fino a pochi giorni fa aveva due aspiranti alla Casa Bianca di origine
cubana, figli di profughi dal totalitarismo comunista dei fratelli Castro. Due
candidati che fino alla settimana scorsa avevano raccolto, sommati, più della
metà degli elettori nelle “primarie”. Se adesso uno dei due, Marco Rubio, ha
finito con il rinunciare è per non continuare a “disperdere voti” e concentrare
quelli dei più “intransigenti” sull’altro cubano, Ted Cruz. Mai quella isola,
insomma, è stata tanto importante per gli Stati Uniti d’America. E non è ancora
escluso che uno dei suoi figli o nipoti salga alla Casa Bianca. E comunque
“quel” cognome non è sparito dalle cronache. Alla candidata democratica alla
presidenza, Hillary Clinton, è stato suggerito di scegliersi un vice che viene
dal Texas e si chiama Julian Castro.