Alberto Pasolini Zanelli
Lo ha detto qualcuno che di queste
cose se ne intende e che gli americani, ad ogni modo, ascoltano: “Se l’Europa
fosse un titolo azionario, converrebbe venderlo al più presto. Perché destinato
a una caduta rapida e profonda”. Il motivo non è finanziario, ma “politico”,
anzi terroristico. L’Unione europea è qualcosa che ha la sede legale a
Bruxelles, dunque già per questo un pochino risente della sua azione in quella
sfortunata capitale. Se i suoi titoli sono destinati ad andare giù, la colpa
non è dei suoi dirigenti. È, secondo i gusti, o dei terroristi o degli autori
del suo “atto di nascita”. Perché l’Unione europea dovrebbe fare certe cose –
molte – e troppo spesso non le fa. Forse perché sono troppe o forse perché,
come pensano in molti, incluso il guru di cui sopra, non potrebbe comunque fare
di meglio. Comunque, va detto a sua parziale discolpa, nel suo certificato di
battesimo non c’è scritto che debba avere a che fare con organizzazioni
terroristiche, tanto meno di origine religiosa e di spirito fanatico. Quelli
dell’Isis, poi, non hanno aggredito a colpi di tritolo i dirigenti dell’Europa,
bensì dei suoi “sudditi” presi a casaccio, solo perché abitavano a Bruxelles.
Anche così, però, ci deve essere
qualche motivo per cui hanno scelto quella data. Dal punto di vista di un
terrorista, è pressappoco quella giusta: l’Europa, o almeno quell’Europa, è in
crisi, è vulnerabile, sta litigando con mezzo mondo e soprattutto con se
stessa. Per di più vive sotto una costellazione maledetta. Dovrebbe essere, per
cominciare, una specie di club fra amici che si rispettano, si vogliono perfino
bene e comunque cercano di fare l’interesse comune. Evidentemente non è così.
Non solo per colpa delle rigidità perfide della signora Merkel, ma perché il
momento è proprio difficile (anche per colpa della signora Merkel). È difficile
per tutto il mondo, come anche un incompetente può constatare, se ha la
pazienza di leggere l’elenco che i governi, in Europa e fuori, che sono in
crisi perché non riescono a trovare una maggioranza e, se la trovano, non
riescono a fare un programma. Capitò anche alla casa madre dell’Europa, il
Belgio. Alcuni anni fa le elezioni ebbero dei risultati così aggrovigliati che i
partiti ci misero quasi un anno per trovare un governo. Per un po’ gli altri
europei si divertirono a seguirne le vicende, oggi non interesserebbero a
nessuno e soprattutto nessuno avrebbe voglia di ridere.
Prima di tutto perché questa non è
più una divertente eccezione: è diventata una abitudine diffusa in tutto il
mondo, addirittura una banalità. In Spagna hanno votato ormai da due mesi e
continuano a trattare, per il semplice motivo aritmetico che non si trova una
somma che sia superiore alla metà degli scranni delle Cortes. Socialisti più nuova sinistra non basta, conservatori con
nuovo centro son troppo pochi, conservatori e socialisti niente da fare,
estrema sinistra estrema destra, be’ quella non l’hanno ancora provata. Ma quel
commentatore americano sa già che non funzionerà. Perché non succede per un capriccio,
ma per la forza delle cose. Il Paese più vicino alla Spagna, il quasi gemello
Portogallo, vive esattamente la stessa vicenda, con la differenza che, essendoci
a Lisbona una Repubblica e non un regno come a Madrid, ha almeno un presidente
che passa il tempo a cercare le coordinazioni. L’unica cosa sicura è che
qualunque formula sanno tutti che non funzionerà. E non è un capriccio iberico:
i governi europei stanno cadendo uno dopo l’altro oppure rimangono, ma il Paese
dà chiari segnali, scheda in mano, che non godono la fiducia e si prepara la
successione.
Potrebbe essere anche, dopotutto,
una buona notizia: essendo l’Europa unita forse non è male che soffra degli
stessi malanni e prenda le stesse medicine. Quando poi si aggiunge che
nell’altra parte del mondo sono esplose contemporaneamente almeno sette guerre
con una ventina di belligeranti, comprensibilmente innervositi, allora capita
addosso una valanga. Perché tante guerre significano tanti profughi e quasi
tutti coloro che scappano di casa preferiscono dirigersi verso una delle tante
province dell’Europa. Con appassionata determinazione, dovuta probabilmente
anche al legittimo desiderio di salvare la pelle. Al punto che verso la sola
Germania si stanno dirigendo un milione di profughi dalla Siria e dintorni.
Hanno perfino il biglietto. Gliel’ha dato la Merkel in un momento di buon
umore. Poi alcune regioni tedesche sono andate alle urne, il partito della
cancelliera ha perso una valanga di voti, sono spuntati nuovi partiti di
opposizione, prevalentemente di estrema destra, mentre più o meno negli stessi
giorni in Grecia prendevano il potere quelli di estrema sinistra, però con
l’appoggio di una estrema destra, perché neppure ad Atene ci sarebbe la
maggioranza. L’essenziale è che siano d’accordo nel detestare i governi
precedenti e ancor più quelli delle altre “province” dell’unità europea: quelle
che si aspettano che i debitori paghino i debiti, anche se non hanno una lira
in cassa e quindi per pagare i debiti devono fare degli altri debiti. Si chiama
Austerity e suona meglio, evidentemente, in tedesco, in svedese, danese;
insomma nei dialetti nordici che non in greco o nelle lingue neolatine. Morale:
l’Europa come è adesso non diverte nessuno e fa soffrire tanti. Anche chi non
ha mai guardato i bilanci riconosce i Paesi debitori da due caratteristiche: vivono
in Paesi caldi e hanno un sacco di partiti nuovi, i cui governi imprecano e poi
obbediscono alla signora Merkel o a un certo signor Juncker che, figuriamoci, è
lussemburghese. E poi aspettano nuove elezioni. Nelle quali voteranno o per
l’estrema destra (come in Polonia) o per l’estrema sinistra (come in Grecia), o
per una giovane e bella signora di estrema destra come in Francia o per un
partito dal nome un po’ buffo, Veri Finni. Che dovrebbero andare d’accordo con
i Fratelli d’Italia. Ma non è detto. E poi dove mettiamo le femministe, che
potrebbero votare per le sorelle?
Cosa devono fare degli scontenti,
quando oltretutto quella gente che viene da lontano cerca di sterminarli con la
dinamite? Arrabbiarsi è poco, fare la guerra non conviene. E poi mica è solo
roba da europei. Basta guardare all’America. La campagna elettorale è
cominciata nell’ottobre dell’anno scorso per eleggere un presidente che entrerà
in carica nel gennaio di quest’altr’anno. Però anche gli americani devono
essere arrabbiati, perché sono spuntati per l’occasione personaggi mai tanto
pittoreschi nella storia degli Usa: due cubani che finora hanno preso più della
metà di tutti i voti americani, uno nato in Canada. La moglie di un ex
presidente, il figlio e fratello di due presidenti, l’amministratrice delegata
di una colossale fabbrica di computer, che però alla fine trattarono come un
presidente del consiglio qualsiasi: licenziata, ma con un congruo numero di
milioni di liquidazione. Poi un medico che prima di candidarsi non aveva
praticamente mai letto un giornale politico. Poi uno che aveva fatto il
parroco. Poi uno che nei comizi promette che, se sarà eletto, ordinerà un sacco
di bombardamenti a tappeto e praticherà la tortura, naturalmente contro i
terroristi o presunti tali. E così via, ma ce ne sono due che battono tutti.
Come originalità di personaggi, per cominciare: uno è sensato, modesto,
vecchiarello, curvo e dalla voce da perenne raffreddore, che però si proclama
socialista. Il che in America è l’equivalente di definirsi un omino verde di
Marte e che come programma ha – in America – la “Rivoluzione”. Gli americani
hanno l’abitudine di andare piuttosto poco alle urne. Sono, anche loro,
scontenti e arrabbiati. Per i soliti motivi: i più non hanno abbastanza soldi
in tasca. E poi ci sono anche qui troppi immigrati. Undici milioni sono quelli
illegali. Naturalmente c’è chi vorrebbe espellerli, tutti. E poi costruire del
muro molto alto per tenerli fuori. E via discorrendo. I candidati inizialmente
erano venti, tre democratici e diciassette repubblicani. Dal momento che i
soldi prima o poi finiscono, adesso sono rimasti in cinque: tre repubblicani e
quei soliti due democratici, la moglie di un ex presidente (ovviamente Hillary
Clinton), il socialista (Bernie Sanders), uno che (la vera eccezione) ha sempre
fatto il politico, uno dei due cubani quello che vuole fare della tortura
un’abitudine (Ted Cruz) e soprattutto, Donald Trump, quello che fa quattro
comizi al giorno, aumentando ogni volta il totale delle promesse, che farebbe
erigere un maximuro lungo tutta la frontiera fra Stati Uniti e Messico, “facendolo
pagare ai messicani”. Dimenticavo che dal primo giorno della maratona
elettorale americana a stasera quest’ultimo è passato in testa.