Alberto Pasolini Zanelli
A New York hanno vinto in tre. I partiti in
gara erano due, ma la collocazione storica e geografica della metropoli ha
esercitato sul voto un’influenza e un peso senza precedenti. New York ha
offerto al massimo esponente della “contestazione” una vittoria che nessuno
osava più prevedere per lui. Ma New York ha offerto nello stesso tempo un
rifugio a quelle forze politiche che più si oppongono e più temono le
“rivoluzioni”. Così fra i repubblicani ha premiato la riscossa di Donald Trump,
ma fra i democratici ha confermato il margine di successo di Hillary Clinton,
che è da ieri l’unico strumento dell’opposizione alle contestazioni, una forza
di centro che si è spostata dall’area repubblicana a quella democratica, una
candidata espressione di una continuità basata sul passato e in qualche modo
anche sulla nostalgia. New York, infine, ha riconquistato quel peso decisivo
sulla vita politica americana che da decenni era discusso, contestato e in
pratica incrinato.
Riguardiamo i risultati, chiari e
nitidi dato soprattutto il numero ridotto dei candidati. Erano in cinque, due
democratici e tre repubblicani. Il primo è stato dunque un duello che ha visto
più o meno confermati i rapporti di forza. Hillary Clinton, sostenuta
strenuamente dall’establishment, ha portato a casa il 57 per cento dei voti contro
il 43 per cento di Bernie Sanders, l’uomo della protesta da sinistra e
dell’esperimento “socialista”. Risultato onorevole anche per lo sconfitto, che
fino a pochi mesi fa era un politico di provincia e che ha accumulato in pochi
mesi vittorie in una buona metà degli Stati. Ha commesso anche errori o ha
preso iniziative di incerto successo, come abbandonare New York negli ultimi
giorni per compiere una “puntata” in Vaticano. La Clinton aveva dalle sue la
“macchina” del Partito democratico, la paura di centri di interesse politico ed
economico, l’esperienza, il voto femminile e, forse soprattutto, una nostalgia di
tempi più tranquilli che si è agganciata forse soprattutto al ricordo del
marito che se la portò alla Casa Bianca un quarto di secolo fa.
La “bomba” è scoppiata fra i
repubblicani. E ha fatto molto rumore. Quell’establishment era stato colto di
sorpresa dalla candidatura di Trump e dalle entità del suo immediato successo
nei piccoli Stati che hanno aperto il calendario delle “primarie”. Un successo
durevole ma che negli ultimi tempi era parso appannarsi, anche perché tutte le
altre componenti dell’area repubblicana si erano coalizzate (e lo sono tuttora)
per fargli lo sgambetto, sfruttando le gaffe sempre più sonore della sua
conduzione politica. Subito prima di New York, il meccanismo sembrava
funzionare: ritiratisi quasi tutti gli altri aspiranti alla Casa Bianca
(l’eccezione è John Kasich, che fruiva dell’endorsment
del New York Times), si doveva
effettuare la concentrazione della “primaria” di New York a dargli il colpo
decisivo. È successo il contrario. Un po’ perché Trump ha ancora delle energie
da spendere, un po’ perché è nato a New York e naturalmente ha martellato
questo dato nella campagna elettorale e un po’, anzi soprattutto, per il
fallimento della strategia dei suoi rivali repubblicani. A raccogliere tutto il
voto anti Trump doveva essere, ed era da diverse settimane, Ted Cruz, estremista
in realtà quanto Trump ma “disciplinato”, dal duro linguaggio aggressivo e di
vigorosa gioventù. Invece Cruz ha raccolto a New York il 15 per cento in tutto
dei voti, superato da Kasich che ha “tirato” il 25 per cento e schiacciato da
Trump che ha superato quota 60 per cento. Se questa era la battaglia decisiva,
sapremmo già chi ha vinto: la “finale” di novembre si disputerà fra Trump e la
Clinton e i pronostici si concentrano su quest’ultima, “rifugio” nei moderati
non più soltanto democratici ma dei repubblicani orfani e naufraghi.
O così sarebbe se a contare fossero
solo i voti. Gli avversari di Trump stanno però cercando di far ricorso a
un’arma segreta disponibile solo per l’establishment: cambiare il rapporto fra
voti e risultati. Far ricorso a regolamenti che variano da Stato a Stato e che
molto spesso potrebbero separare gli esiti delle urne e le loro conseguenze. Il
piano si riassume così: in diversi Stati le vittorie di Trump potranno essere
ridimensionate nella distribuzione dei posti di delegato alla Convenzione del
Partito che dovrà nominare il candidato alla Casa Bianca. È sicuro ormai che
Trump arriverà in testa, ma potrebbe non avere la maggioranza assoluta. In
questo caso le clausole fantasma del regolamento impedirebbero un ballottaggio
che lo vedrebbe comunque in testa, permettendo così ai delegati di accordarsi su
un altro nome. Che doveva essere Cruz, oggi superato. Ma che potrebbe anche
essere di uno che non ha partecipato a nessuna “primaria”. New York non ha
certo incoraggiato tale disegno, ma tutte le ipotesi sono ancora in piedi. La
“guerra” continua.
Pasolini.zanelli@gmail.com
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La guerra
Republicana continua e la vittoria resta (altamente) incerta
Lorenzo Marchesini
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