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La campagna elettorale Usa ha cambiato faccia




Alberto Pasolini Zanelli
La campagna elettorale Usa ha cambiato faccia. Non per la prima volta, ma in misura mai così grossa dopo lo choc iniziale causato dall’emergenza di Donald Trump. Nessuno se lo aspettava e lui fece lo sgambetto a tutti coloro di cui invece si parlava. Accadde in due piccoli Stati come l’Iowa e il New Hampshire. Stavolta la sorpresa è venuta da uno Stato di dimensioni medie, il Wisconsin. E Trump questa volta ha “fatto notizia” in un modo opposto: è inciampato, si è fatto male, potrebbe anche aver perso l’ultimo treno per la Casa Bianca. E contemporaneamente, proprio nelle stesse ore e luoghi, un’altra sorpresa è “decollata”. Democratica invece che repubblicana. C’erano cinque candidati in tutto nei due caucus in Winsconsin ma erano due gare completamente separate, anche se destinate a reincontrarsi poi in novembre. La maratona elettorale ha superato metà percorso ma non si avvia alla chiarificazione: è al via di una competizione essenzialmente nuova. Fino a questo momento il Partito democratico pareva avviato a un semplice consolidamento nel solco della trasmissione ereditaria dei punti di forza e di debolezza emersi dalla presidenza Obama. L’unica cosa sicura era il candidato, Hillary Clinton. E questo nonostante la clamorosa caduta dell’altro aspirante dinastico, quella della famiglia Bush.
Democratici monocordi, repubblicani divisi, anche prima che comparisse Trump. Ambedue le immagini si sono andate modificando, ma l’evoluzione fra i democratici è stata graduale e “progressiva”. Hillary partita nettamente in testa, senza rivali presi sul serio e confrontata con un solo concorrente, mosso da una passione ideologica più che dalla gestione del potere. Bernie Sanders è partito proclamandosi socialista e con l’apparente ambizione di raccogliere i voti della protesta, fornendo alla Clinton, in caso di vittoria, una base su cui articolare una qualche riforma. Le cose “accadevano” nel Partito repubblicano, con 17 candidati in partenza e con l’emergere di colui che la protesta la definiva in proprio e senza alcuna componente ideologica.
Le posizioni, dopo lo choc iniziale, si erano a poco a poco chiarite. L’establishment repubblicano, che avrebbe dovuto avere il partito saldamente in mano, presentava un paio di aspiranti di idee e programmi sostanzialmente simili e catalogabili a destra. Non si aspettava che proprio da destra gli venisse la sfida e la contestazione. Gli è bastato comparire per mettere in mano a Trump una specie di scopa con cui egli ha spazzato via non solo la dinastia Bush ma tutti gli altri concorrenti, meno uno. Ted Cruz è il sopravvissuto e adesso è alla riscossa. È riuscito a eliminare tutti i concorrenti “normali” e a favore dell’establishment per cui a poco a poco ha ereditato (tranne uno, il moderato Kasich) tutti i “nemici” di Trump, bravissimo a crearseli. Intanto si continuava a votare Stato dopo Stato ma con risultati alterni. Finché non è venuto il turno del Wisconsin e Donald Trump è inciampato, è caduto, si è fatto male. Il suo vantaggio iniziale gli aveva permesso fino a quel momento di bilanciare le vittorie e le sconfitte dei diversi Stati. Questa volta è stato battuto, sconfitto nettamente, con il margine del 20 per cento. E Cruz ha intascato una maggioranza assoluta.
La gara è diventata adesso una corsa a inseguimento, con un treno davanti che rallenta e un treno di dietro che accelera. Perché ciò sia accaduto si apre a diverse interpretazioni. La più colorita è che Trump, avendo più volte “maltrattato” le donne, abbia esagerato con una gaffe sul divorzio, definendo “racchia” la moglie di Cruz. Di qui, dicono molti esperti, uno spostamento massiccio delle preferenze femminili. Se così fosse per Trump la partita sarebbe persa. Egli può ancora arrivare in testa alla conclusione delle primarie, ma il famoso establishment potrebbe ormai avere di nuovo in pugno le armi della burocrazia partitica e far eleggere Cruz oppure, come seconda scelta, un non candidato, l’attuale presidente della Camera, Paul Ryan, particolarmente gradito alla destra economica. Cruz è invece il prediletto dell’ala religiosa del conservatorismo americano. Trump non è particolarmente apprezzato dai credenti e quanto al Grande Capitale conta soprattutto sul proprio. I tre hanno ancora una cosa in comune: non sanno più con chi dovranno scontrarsi a novembre. La Clinton ha ancora dalla sua l’altro establishment, quello del Partito democratico, che farà di tutto per farle avere la candidatura. Oppure Bernie Sanders, cui mancano tutti gli appoggi tradizionali tranne uno: i voti. Partito quasi da zero, è ormai quasi pari alla Clinton. Se poi riuscisse a conquistarsi la candidatura a furor di popolo, i sondaggi dicono che potrebbe sconfiggere tutti i repubblicani. Sempre proclamandosi socialista, parola fino a ieri pressoché sconosciuta nel linguaggio politico Usa. Questo è il penultimo paradosso: l’ultimo, più antico, è che fra i colori delle coccarde dei partiti, il rosso di Sanders dovrebbe nascondersi dietro la tinta tradizionale dei democratici, che è il blu. Il rosso “proletario” appartiene invece ai repubblicani e alla destra.