Alberto Pasolini Zanelli
Qualcosa sta
cambiando in America, in questi giorni e settimane. In parte era prevedibile o
addirittura scontato, in parte è una sorpresa. La prima a cambiare è la
campagna elettorale, per esaurimento. Per mesi ci si è battuti fieramente,
soprattutto fra repubblicani, ma adesso i vincitori sembrano delineati e i loro
avversari rassegnati. Ciò era prevedibile nel Partito democratico: il pur grande
successo a sorpresa di Bernie Sanders non aveva mai dato l’impressione di poter
capovolgere i rapporti di forza e sbalzare di sella Hillary Clinton, che aveva
dietro l’intero apparato del partito e che aveva saputo difendere, sia pure
cedendo alcuni milioni di voti, alla “carica” dell’uomo emerso di sorpresa sventolando
una delle parole più “proibite” nel gergo politico americano: socialismo.
Hillary si è già assicurata la nomination per la
Casa Bianca e adesso può permettersi anche
di riabbracciare Bernie.
E ora, forse, gli
uomini dell’establishment si stanno
rassegnando anche in campo repubblicano. Trump si è intascato anche gli ultimi
cinque Stati, con maggioranze notevoli o addirittura schiaccianti. È fallita
anche la “congiura” che consisteva nel reciproco desistere dei due avversari
rimasti in gara, il moderato Kasich e l’estremista Cruz, che si dovevano
“scambiare” i voti nei diversi Stati. Rimane in piedi la seconda parte del
“complotto”: il tentativo di “rubargli” i delegati alla Convenzione nazionale.
Ci sono precedenti: nel 1976 Jerry Ford rubò all’ultimo momento la nomination a
Ronald Reagan. Teoricamente il “golpe” si può ripetere contro Trump, ma ci
credono ormai in pochi.
Ed ecco che i
candidati abbassano la voce, mentre la ritrova l’inquilino della Casa Bianca.
Obama si era astenuto fino a poco tempo fa dal farsi sentire troppo, per
cortesia ma soprattutto per la convenienza di lasciare un buon ricordo. Adesso
che gli scontri “selvaggi” paiono declinare, ecco l’inquilino della Casa Bianca
sentirsi autorizzato a riprendere la parola per presentare agli americani, al
mondo e alla Storia un bilancio collegato a una serie di consigli nutriti
dall’esperienza. Concentrati sulla politica estera, sul confronto fra l’America
e il mondo oggi e otto anni fa. Il primo “nero” che parlava dalla Casa Bianca
si presentò con un programma così intessuto di ideali da meritarsi un premio Nobel
per la pace prima ancora di insediarsi. La sua presentazione suscitò il massimo
entusiasmo in Europa mentre incontrò riserve nel Medio Oriente, silenzio
sospettoso nell’Asia Orientale e vivissima ostilità in America. Il punto chiave
del programma di Obama era in effetti la diminuzione dell’impegno americano nel
Medio Oriente e un aumento nell’Asia Orientale dove Obama identificava i
massimi problemi per il futuro. Nel Medio Oriente le cose non sono andate bene e
la tensione è addirittura aumentata. Soprattutto in Siria, dove un quadriennio
di guerra civile con interventi stranieri sembra aver raggiunto finalmente una
svolta con l’indebolimento delle organizzazioni più spiccatamente fanatiche e
terroristiche ma con buona parte del successo e quindi del merito attribuibile
non agli Stati Uniti bensì alla Russia. Che ha giocato la carta militare con
più decisione e spregiudicatezza e adesso si occupa di raccogliere altri
guadagni da un ristabilimento della pace.
Washington è
passata in secondo piano e adesso Obama muove per recuperare il terreno. In
misura soprattutto simbolica, spedendo in Siria 250 “consiglieri militari” a
rafforzare le indebolite schiere dell’“opposizione democratica”, la prima a
muoversi contro il regime di Assad ma senza decisivi successi sul campo. Alcuni
“falchi” plaudono adesso al presidente-colomba, ma le colombe danno segno di
preoccupazione. Se ne trovano anche in Europa, meta di uno degli ultimi peripli
di Obama, accanto a quello in Arabia Saudita, dopo la riconciliazione con Cuba e
in attesa di una possibile visita a Hiroshima. Come se Obama volesse
“ridisegnare” il mondo con il minimo possibile di cambiamenti ma con il
ristabilimento di una distensione che era stata il trionfo di Reagan con la
fine della Guerra Fredda. Una interpretazione che resuscita un confronto con
una remota attività. Anche Roma ebbe un Imperatore vittorioso in battaglia,
Traiano e un successore che si curò di stabilizzare il successo con la pace e
la misura. Si chiamava Adriano e rimase famoso per i suoi viaggi alle frontiere
dell’Impero.