Alberto Pasolini Zanelli
Settant’anni dopo, sette leader in
piedi davanti alla tomba simbolica di centocinquantamila morti. Così si è
concluso il “prevertice” dei ministri degli Esteri dei Sette “Paesi più
industrializzati” che fino a pochi anni fa potevano ancora essere definiti i
Sette Grandi, prima che la globalizzazione e la robotizzazione cambiassero gli
atlanti. Non c’era ancora la Cina, non c’era più la Russia, c’erano ancora il
Canada e l’Italia. È stata anche la prima volta, però, che il mondo si è
scusato per Hiroshima e Nagasaki con Hiroshima e Nagasaki, ma soprattutto con
se stesso. Ha parlato per tutti il Segretario di Stato americano John Kerry, il
“numero due” della Superpotenza numero uno, l’uomo che è riuscito a concludere
tutte le paci possibili.
Egli ha risposto all’interrogativo
del giorno, riguardante Obama e la sua “tentazione” di venire in Giappone in
persona a dire che gli dispiace che settant’anni fa sia accaduto questo e che
abbia la firma dell’America. Obama non porterà, ha detto Kerry, delle scuse
ufficiali, ma forse verrà e la sua presenza sarà significativa. Tutti
dovrebbero visitare Hiroshima – ha detto Kerry – e “tutti” significa “tutti”. Compreso
Obama. “È stato invitato a venire e vuole venire, un giorno o l’altro. Quello
che non so è se potrà venire da presidente”. Cioè prima o dopo la scadenza del
suo mandato. L’occasione migliore è il “vertice” del G7, in calendario il mese
prossimo a Ise-Shima, a quattrocento chilometri di distanza. Una “occasione
d’oro” per un presidente che, appena eletto, fu insignito del premio Nobel per
la Pace. Un riconoscimento senza precedenti per chi si era presentato con un
programma senza precedenti. “Costruire un mondo senza armi nucleari”. In tanti
la considerano una utopia, una parte importante di tutti gli establishment di
Washington, dal militare al finanziario lo respinge come un rischio per la
sicurezza nazionale. La Casa Bianca è ben conscia di essere sotto pressione,
soprattutto in un anno elettorale particolarmente aspro, con un ruolo senza
precedenti per le correnti e per i candidati più militanti. Donald Trump è
finora il più noto ma non è il solo. I repubblicani hanno sistematicamente
dipinto la politica estera di Obama come oscillante, debole e “disfattista”, a
cominciare dai rapporti con la Russia ma anche in Siria (avrebbero voluto un
intervento militare contro il regime di Damasco, che avrebbe indirettamente
avvantaggiato anche l’Isis. Hanno fatto oggetto di mordaci ironie la “mania
delle scuse” attribuita a Obama, compreso il suo inchino nell’incontro con l’imperatore
del Giappone (ma se lo era dovuto permettere anche Bush), ma soprattutto
l’accordo nucleare con l’Iran e la riconciliazione con Cuba presieduta ancora
da un Castro.
I rapporti con Tokio, invece, sono
rimasti saldi, anche perché Obama ha sempre dato la precedenza, fra i teatri di
crisi, all’Asia orientale minacciata dall’espansionismo cinese. Le tensioni con
Tokio sono sempre contenute e riguardano il passato, una guerra conclusa
settant’anni fa. Il governatore di Hiroshima ha ricordato di recente che fra
Obama e i presidenti di altri Paesi che dispongono ora dell’atomica, è che gli
Stati Uniti sono gli unici che quella bomba l’hanno sganciata (ma questo non
significa – ha subito aggiunto – che Obama si debba scusare). Hiroshima e
Nagasaki pilastri della Storia? Come Grande Storia non fanno parte del capitolo
del Giappone ma di quello dell’America. Gli Stati Uniti, già allora crogiuolo
del pianeta, vi aprirono una nuova strada; il Giappone, aggressiva potenza
provinciale del ventesimo secolo, ne fu toccato incidentalmente. Americane
furono e sono la gloria, il trionfo, la responsabilità. Da Hiroshima e Nagasaki
nacquero la pax americana, che
coincise con la Guerra Fredda. Tokio ne fu vittima e fruitore, poi spettatore.
Al di fuori dei dì di festa, di Hiroshima si parla più a Washington che a
Hiroshima. Là si è fatta la Storia, ragione e coscienza.