Alberto
Pasolini Zanelli
C’è chi la chiama “estrema destra”. C’è chi la
definisce, più genericamente, “estrema protesta”. Da un paio di anni almeno
ogni volta che un Paese europeo va alle urne, non solo il governo ne esce in un
modo o nell’altro battuto, ma cedono o addirittura crollano i partiti che
costituiscono storicamente e “strutturalmente” il Governo. Quelli che si
alternano al potere con una sinistra moderata, classica, chiamiamola con il suo
nome, “socialdemocratica”, che assorbe il malcontento di una parte del ceto
medio e di quel che resta di quel che si chiamava “classe lavoratrice” o
addirittura “proletariato” oppure quello che ha una relazione ormai secolare
nel malcontento moderato dei “moderati”, di quell’altra metà del ceto medio che
tradizionalmente si sfoga eleggendo democristiani, liberali, conservatori.
Adesso i partiti dell’“alternanza” hanno preso,
invece, l’abitudine di perdere entrambi, contemporaneamente. Guardiamo cos’è
successo domenica in Austria, dove c’era da eleggere non il Parlamento ma il
presidente della Repubblica. I protagonisti tradizionali sono il Partito
socialdemocratico e quello popolare, nome germanico dei democristiani, che si
alternano di solito al potere. Stavolta i candidati erano sei e quello
democristiano è arrivato quarto, quello socialista quinto, con rispettivamente
l’11 e il 10 per cento del suffragio popolare. Dunque sono stati esclusi
entrambi dal ballottaggio che si terrà il 22 maggio. A contendersi la poltrona
presidenziale saranno quel giorno due partiti nuovi o nuovissimi: il secondo
arrivato, è il candidato dei Verdi (opposizione di sinistra) con il 21 per
cento; il primo quello dell’estrema destra (che si chiama qui Partito della
Libertà) che ha passato addirittura il 35 per cento. Fra loro e i due “grandi” decaduti
c’è anche un indipendente, che ha sfiorato il 20 per cento. L’ordine d’arrivo
rispecchia, ingigantendolo, quello che recentemente è uscito dalle urne per le
elezioni parlamentari in Spagna e Portogallo, confermando già allora risultati
analoghi nei Paesi scandinavi, in Olanda, naturalmente in Grecia ma anche in
Ungheria o in Polonia. L’ultimo test è venuto dalla Germania, dove una “nuova”
estrema destra ha per la prima volta vinto in un Land. Gli ultimi sondaggi
delle presidenziali in Francia danno a Hollande un risultato inferiore al 20
per cento, lasciando quindi presumere anche qui una “finalissima” fra due
partiti di destra, quella “classica” di radici gollisti e quella del Front
Nationale guidata dalla moderna Giovanna d’Arco, Marine Le Pen, affezionata in
campo europeo a Matteo Salvini. Senza calcolare, perché non si vota proprio
subito, il capovolgimento dei rapporti all’interno del Partito laburista
britannico, dove la sinistra ha strappato il volante ai tradizionali moderati.
Fare i conti, a questo punto, diventa perfino monotono. Quello che soffia
sull’Europa intera è il voto della protesta, spesso più potente quando viene da
destra.
Meravigliarsi ogni volta dovrebbe essere proibito o
almeno bollato come “perdita di tempo”. Sarebbe più opportuno che le classi
dirigenti dei vari Paesi europei riconoscessero il perché di questo spostamento
così radicale e così scomodo. La scusa più frequente, invece, consiste nel dare
tutta la colpa agli immigrati. Che certo sono un elemento di disturbo e di
destabilizzazione, ma che da soli non basterebbero. Ce n’è almeno un altro di
motivo ben più endogeno, più propriamente “europeo”. I milioni di italiani,
francesi, scandinavi, iberici che votano contro i rispettivi governi non solo
perché disturbati (e lo sono parecchio) dalle decine di migliaia di siriani,
afghani, iracheni, africani, ma esprimono anche una delusione più profonda,
sebbene meno colorita, per il volto che l’Europa ha preso a mostrare in modo
più scoperto da quando è entrato in vigore l’euro. Da quando si è dovuto
constatare che non sempre quando dei Paesi sovrani decidono liberamente di
unirsi, sentono il bisogno di mostrarsi a vicenda che hanno fatto un passo
sulla strada della vera unione che è o dovrebbe essere basata sulla strada della
solidarietà e dunque della generosità, se non vogliamo dire fraternità.
L’Austerity è sempre sgradevole, checché ne dicano i pochi che non ne sentono
il morso. Ma un’Austerity imposta da un altro, da un’altra capitale e motivata dall’obbligo
del rigore senza concessioni al socio più debole, non può che provocare malcontento
e reazioni, anche e soprattutto dentro le urne. Ci sono infine motivi che
nascono al di fuori delle frontiere esterne dell’Europa, che si fanno sentire
nel Sud America, le cui economie crollano, in Russia e in Cina, infine negli
Stati Uniti, dove non c’è recessione ma che soffrono di un impoverimento del
ceto medio (conseguenza della globalizzazione e della sempre più rapida
robotizzazione). Non solo l’Europa, dunque, è “malata”. Lo è in diversa misura il
mondo all’apertura del nuovo millennio. Lo dimostrano anche gli americani nella
loro campagna elettorale, di cui sono protagonisti non più i soliti democratici
e repubblicani, ma i Trump e i Sanders, che finora hanno strappato ai partiti
tradizionali almeno metà dei voti. Non meravigliamoci poi di quello che accade
dentro le urne europee. Sono solo gli europei che ce l’hanno con l’Europa.