Alberto
Pasolini Zanelli
Ci voleva una
grande democrazia in una crisi di nervi per aprire una nuova forma di
repressione: quella definita un po’ rudemente “campi di concentramento per
bambini”. Per figli e nipoti di adulti che desiderano rifugiarsi all’estero
dalle miserie domestiche. Non c’è niente di nuovo: i dittatori dicono “no” e
basta, gli altri ricorrono alla burocrazia. Prolungano i tempi di un consenso
di malumore: ai sudditi che se ne vogliono andare si blocca la strada spesso
con la vecchia arma della polizia.
Ma in un grande
Paese democratico come gli Stati Uniti il problema è diverso e le cure, in più
di un senso, opposte: coloro che vogliono uscire presentano problemi diversi da
quelli che vogliono entrare. Non li ostacola un brutale divieto, ma una trafila
burocratica che può da lontano sembrare “umanitaria”. Gli aspiranti profughi
verso gli Stati Uniti non vogliono semplicemente entrarci, ma diventare
cittadini a tutti gli effetti. Per arrivarci devono dunque rispondere a una
serie di condizioni, che riguardano loro e i familiari. Sono o dovrebbero
essere i preferiti: c’è da fidarsi di più di chi si porta dietro moglie e figli
e magari anche qualche suocera. Però queste sono anche scuse per rallentare il
procedimento. Per cui la famiglia si presenta compatta ai cancelli di ingresso,
ma entra, nella migliore delle occasioni, un pezzetto per volta. E dal momento
che non si può mandare i bambini avanti da soli, li si tiene indietro, fuori
dall’abbraccio e dal controllo del babbo e della mamma. E li si tiene chiusi in
quelle che potrebbero chiamarsi gabbie ma obiettivamente non lo sono. Si
avviano con la mamma al cancello, la mamma prosegue e loro rimangono lì. Cosa
fanno? Piangono. Sono tanti e così disperati che il rumore arriva fino quasi
alla Casa Bianca e al Congresso e non viene ignorato. Si cerca di aiutarli, ma
con le vie della burocrazia: le mamme vanno avanti nella Terra Promessa e i
bambini rimangono “dentro”.
In questi tempi le
loro grida vengono particolarmente ascoltate, anche perché possono servire agli
avversari di questo programma per dare corpo alle proprie obiezioni e suggerite
soluzioni: ricongiungersi con i genitori e farli affrontare assieme le
incertezze e le difficoltà di un esodo che, almeno nei primi tempi, non è molto
diverso da un esilio. Hanno trovato uno slogan adesso: “Bambini strappati alla
mamma e rinchiusi in campi di concentramento”. La Casa Bianca nega,
l’opposizione democratica ribadisce. Qualcuno dà la colpa a un presidente
scaduto, Barack Obama, colpevole secondo i repubblicani di averla fatta troppo
facile all’indice di una “tolleranza zero” che è impensabile con la firma di
Donald Trump. Il risultato è che, giunti alla frontiera del Texas o della
California con il Messico, questi bambini vengono separati dai genitori non per
qualche ora ma per diversi giorni, se non per settimane. È così che il cammino
della speranza diventa un lager. Così definito con vigore esagerato, ma sempre
più diffuso.
Negli ultimi
giorni hanno trovato quattro voci di mamme o almeno di donne, tutte uscite
dalla Casa Bianca: la moglie Bush, quella di Obama, quella di Clinton e, nelle
ultime ore e con qualche cautela, anche quella di Trump. Serviranno? Sarebbe
necessario. Ne avrebbe bisogno soprattutto l’attuale presidente, già inguaiato
dalle sue imprevedibili aperture e chiusure, rotture con gli alleati e strani
fidanzamenti con i peggiori dittatori in circolazione.